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Come ho perso la guerra, Filippo Bologna

Cover_Come ho perso la guerra

Questo articolo è pubblicato anche su Repubblica Bari.it

Il romanzo d’esordio di Filippo Bologna, Come ho perso la guerra, è un libro che resterà. Una lingua forbita e descrizioni onomatopeiche. Leggi e contestualmente vedi quello che leggi, soprattutto aspetti con ansia il prossimo brano per leggere una nuova descrizione. Per goderti gli aggettivi, le parole o intere frasi che sembrano disegnare il cielo così come uno stormo di rondini in una bella giornata di marzo. C’è abbondanza in questo esordio, forse troppe cose. Un’abbondanza per la quale sarebbe stata più opportuna una visione olistica del narrare, perché la storia avrebbe avuto spazi e territori più ampi dove fluire. Così come l’eccessiva frammentazione non asseconda una lettura complice. Nonostante questo, il lavoro di Bologna è una boccata d’ossigeno per la letteratura italiana, uno spartiacque tra chi ha qualcosa da dire e chi no. Tra chi usa in modo sapiente le parole e chi no. Una storia scritta bene.

«Ma come si fa a costruire un castello nel Novecento? Nel secolo della velocità, delle masse, della guerra totale, dell’uomo sulla luna e del grande balzo in avanti? Solo un necrofilo – o un reazionario – potrebbe concepire un edificio già morto agli albori del secolo più moderno della storia. Perché un castello non è solo un edificio ma è anche un concetto. Un concetto tramontato da secoli, sprofondato nei recessi della storia assieme alla ridicola società cavalleresca che abitava le sue stanze. Provate per un attimo a uscire dalla grettezza dei vostri condomini, dallo squallore delle vostre palazzine, dalla pretenziosità delle vostre villette, e immaginate di abitarci voi, in un castello. Non c’è niente di romantico, niente di favoloso, levatevelo dalla testa. È come abitare nel bozzolo essiccato di una crisalide. È una cosa orribile. Eppure è sublime. E non c’è affatto contraddizione, perché non si può che provare orrore ed estasi per le forme morenti. Se siete un pittore di nature morte sapete di cosa parlo».
La storia di Federico Cremona e della sua famiglia si costruisce attorno a un castello “rifatto” che in realtà, lo si scoprirà leggendo, è un castello risalente all’anno mille.
Il castello come metafora della società che muta e di un mondo che non c’è più. Il castello come elemento attorno al quale ruota la vita sociale di una comunità. E poi c’è la storia, quella narrata, che s’innerva sulla vita degli abitanti di questo piccolo paesino situato tra la Toscana e il Lazio che cambia le loro abitudini e, spesso, anche i pensieri.
Oltre la storia c’è la scrittura. C’è una consapevolezza del narrare e una visione delle cose che lascia senza fiato. Alcune sequenze sembrano essere uscite da un film di Sergio Leone. E la precisione e la puntualità con cui le parole entrano in scena detta un ritmo narrativo che asseconda il tuo pensare.
«Fede aveva una gran mira e quando imbracciava la doppietta suonava a morto. Fin da piccolo, dalle prime fucilate s’era visto che lui e il fucile erano una sola cosa. La prima volta andarono a tirare ai colombacci al capanno col guardia e col babbo. Fede vide come si faceva e non ebbe bisogno di altre spiegazioni. Un colombaccio attraversò la radura battendo le ali come svogliati colpi di remo ogni volta che perdeva quota. Fede lo aspettò sulla retta immaginaria che dalla canna corre all’infinito. Poi si fece coraggio ed esplose il colpo. Una rosa bianca e grigia fiorì in aria, e mentre le piume ricadevano lievi come petali si sentì il rumore senza peso del corpo che cadeva sul prato».
«Si sentì il rumore senza peso del corpo che cadeva sul prato» commuove e stordisce. Ti rende partecipe dell’accaduto, cattura e trasporta in mondo fatto di parole che parlano. Parole che descrivono e fermano in immagini plastiche il corso della narrazione.
Scorre parallela alla scrittura la storia di un fantomatico imprenditore che vuole sfruttare la natura del luogo (le abbondanti acque termali che rendono ricco il territorio) insieme alla storia interiore di Federico. Un flusso ininterrotto che attraversa storia collettiva e storia privata, e che accompagna fino all’epilogo.

Titolo Come ho perso la guerra
Autore Filippo Bologna
Editore Fandango
Anno 2009

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