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Il mio cuore umano, Nada Malanima

Ogni autobiografia, la storia di noi stessi, è anche una storia d’amore. Così come ogni autobiografia è sempre una piccola storia del nostro Paese. Una storia di luoghi. Una storia di luoghi e di persone. Ogni autobiografia è una storia di ricordi. Una storia di particolari. Di piccoli particolari, come i tacchi consumati di una giovane donna. Ma soprattutto ogni autobiografia serve per ordinare i ricordi. Per ri-sentire gli odori. Per ripercorrere strade già percorse. Per salutare di nuovo chi non c’è più. Per raccontare e raccontarsi. Per riconciliarci con il nostro viaggio.«Era la fine di febbraio, esattamente il periodo di carnevale, da tutte le parti si festeggiava. Quella sera mio padre e mia madre erano andati a ballare in un paese vicino, mia madre ballò così tanto che le si consumarono i tacchi, continuò a ballare a piedi nudi, sembrava felice, tornata in sé, e la notte tardi tornando a casa mio padre fermò la vespa in una stradina di campagna e fecero l’amore sotto la luna piena. La mattina dopo quando mia madre si svegliò disse: Gino sono incinta.»
Perché la meta del nostro viaggio più importante, la vita, è il viaggio stesso. Perché non si arriva mai da nessuna parte, si è, semplicemente in un posto, collocati nello spazio e nel tempo. Questo spazio nel tempo contiene ieri e domani, è il tempo presente, l’oggi.
«La bimba è rossa, la bimba è rossa. Cominciò una tragedia familiare. Per mesi e per anni non si fece che parlare dei miei capelli rossi. Rossi come il diavolo, come il fuoco dell’inferno, rosso malpelo bruciami il pelo, diceva mia nonna Mora…»
Chi non si ricorda “Ma che freddo fa”. «D’inverno il sole stanco, a letto presto se ne va. Non ce la fa più, non ce la fa più. La notte adesso scende, con le sue mani fredde su di me, ma che freddo fa, ma che freddo fa…», l’atmosfera che questa canzone, successo senza tempo della musica italiana, trasmette sembra essere la colonna sonora perfetta anche per questa storia che Nada Malanima racconta. E poi c’è un bel nero che aleggia nel libro che mi ricorda un altro nero. Il nero di Agota Kristoff in Trilogia della città di K. Lì una periferia dell’impero devastata dalla guerra, qui la periferia d’Italia che esce dalla guerra e che fatica a vivere. Non c’è qui la radice etnica alla base dello sconquasso, ma emerge, prorompente, la diffidenza di provincia per il diverso e il pregiudizio, arcaico, nei confronti della donna. E l’assioma donna, strega, rosso, diavolo è immediato. C’è un nero che è il dolore delle famiglie povere. C’è un nero che ti corrode dentro. C’è un nero che mi sembra universale. In queste pagine incontri un sentimento che ti pervade capace di sostituirsi alle parole o ai pensieri. C’è una storia e, forse, proprio per questo le parole passano in secondo piano.
«La morte t’inganna, non devi guardarla in faccia, solo un grosso buco rotondo sopra un corpo che non esiste, che è solo un’ombra nera, il buoi, che ondeggia, che striscia, sempre intorno, vicino, ed emette un suono che non devi ascoltare, guai, altrimenti ti volti e la guardi in quella faccia che non è una faccia, ma solo un buco luminoso che ti risucchia e ti porta via, e sei morto.»
C’è un prima e un dopo in questa narrazione. Un prima e un dopo che non è dettato da avvenimenti ma proprio dal corso della scrittura. All’inizio le parole sono timide.  Così come i pensieri. Poi d’un tratto, la storia e con essa le parole e i pensieri hanno un sussulto. Comincia un’altra storia. Una storia raccontata con parole altre. Parole che adesso arrivano. E non c’è più solo il nero o la morte ma irrompe l’amore, che move il sole e l’altre stelle.
«Non capivo cosa mi stava succedendo, non avevo mai provato nulla di simile. Avevo sempre voglia di vederlo, ma soprattutto di toccarlo e di farmi toccare. La sensazione che provavo quando mi sfiorava per caso le mani, un braccio, una spalla o il viso era diversa da quella che provavo quando mia sorella mi stringeva o mi accarezzava. S’impadroniva di me e non potevo resistergli, era come avere le vertigini, mi dilaniava in un piacere sconosciuto e un brivido mi confondeva.»
E si arriva così all’epilogo che prepara a un nuovo inizio. L’inizio di una vita altra, una vita adulta. Una vita che già, in parte, abbiamo conosciuto.

Titolo Il mio cuore umano
Autore Nada Malanima
Editore Fazi
Anno 2008

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