Anche quest’anno non ho visto il festival di Sanremo come mi capita ormai da diversi anni. Non per essere snob. Non mi piace quel tipo di spettacolo televisivo. Inutilmente lungo, tre giorni sarebbero meglio di cinque, e soprattutto con tante canzoni di cui non resta traccia alcuna nella storia della musica italiana. Penso sia uno spettacolo che non coincida con il tempo che abitiamo che è popolato di altri immagini, altre aspirazioni, altri sogni. In questo senso estraneo alla nostra contemporaneità. L’unica eccezione l’ho fatta per la performance di Roberto Benigni e non me ne sono pentito.
Eppure il festival di Sanremo ieri notte mi ha catturato, per quattro minuti, ma mi ha catturato.
Tornavo da Ascoli Piceno a Pescara, credo fosse l’una, dove ero stato alla presentazione di un libro. Accendo la radio e ascolto la voce di Gianni Morandi che annuncia: «Sono lieto, felice, di presentare la canzone vincitrice del festival di Sanremo, Chiamami ancora amore di Roberto Vecchioni». Sorrido, sono contento. Per me Vecchioni è Luci san Siro, è Samarcanda.
Parte la canzone. Dura un attimo. Mi piace al primo ascolto.
La magia delle canzoni è che ti fanno pensare e ti portano altrove. Spesso oltre gli stessi intendimenti di chi le scrive. È la potenza della musica, più in generale dell’arte. Della bellezza.
Due versi mi tornano in mente.
«e per tutti i ragazzi e le ragazze che difendono un libro, un libro vero, così belli a gridare nelle piazze perché stanno uccidendo il pensiero», riconosco Vecchioni in questi versi e rivedo la bellezza del gesto. Ripenso a quei ragazzi che sono scesi in piazza contro la riforma Gelmini e che avevano come scudi le copertine dei grandi classici della letteratura mondiale.
E poi «Chiamami ancora amore, chiamami sempre amore, che questa maledetta notte dovrà pur finire, perché la riempiremo noi da qui, di musica e di parole». Rivedo davanti ai miei occhi il film di questi ultimi mesi. Ripenso allo smarrimento di una nazione che si perde dietro storie “tristi e solitarie”. È una notte che esprime un disagio esistenziale. Leggo allora le parole del professor Roberto Vecchioni come un ancora di salvataggio, un’intuizione. Un auspicio. Parole che riconoscono nella mia mente altre parole, quelle di Italo Calvino.
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facilmente a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare di sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»
Non inseguiamo più l’inferno dei viventi ma riempiamo questa notte di musica e di parole. Facciamo vincere la bellezza. Forza allora, un’Italia migliore c’è ed è già qui tra noi.
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