Questo articolo è pubblicato sul quotidiano Roma, il giornale di Napoli
Dentro I figli dell’istante di Edoardo Albinati
I figli dell’istante è un romanzo che cattura il tempo, lo inchioda alla pagina e lo interroga. Edoardo Albinati, da fuoriclasse della scrittura qual è, compone un’opera monumentale e vitale, capace di restituire al lettore non solo storie, ma mondi interi.
A guidare la lettura è Elegia dello Stivale, testo d’apertura che traccia la mappa narrativa: uno spazio netto, senza infingimenti, in cui il racconto si muove tra giudizi, azioni, affermazioni. Termina a pagina 25. Da questo momento il lettore può godersi la lettura con maggiore consapevolezza.
Subito dopo – a pagina 26 – entrano in scena protagonisti e comprimari, descritti con la minuzia e la precisione tipiche di Albinati. Come tessere di un puzzle infinito le figure si dispongono su una scacchiera a comporre un quadro d’insieme.
Sono volti e situazioni scomparse dalla vita quotidiana, rese con limpidezza e nostalgia: la cartolina precetto per la leva, il ragioniere tuttofare Gene Mascheroni detto l’Infame, figura quasi mitica di general manager ante litteram. Scomparsi entrambi: il consulente interno alle case editrici e i correttori di bozze.
La casa editrice Minaudo diventa simbolo del mondo, è la scacchiera sulla quale i personaggi si muovono secondo regole immutabili, quelle delle relazioni umane. Un microcosmo che è anche formazione sentimentale e sociale: «La Minaudo era una scuola di vita e di stile». Le parole rimandano a Calvino de Le città invisibili, dove Kublai Khan osserva Marco Polo muovere pezzi invisibili su una scacchiera invisibile. Le geometrie dei sentimenti, dei legami, delle scelte.
Nel volgere di 56 pagine – su un totale di 683, ma non spaventatevi: si leggono con gioia e leggerezza – Albinati ha già condotto il lettore al cuore del romanzo.
E, andando avanti, si incontra una moltitudine di personaggi. Berio e Marianna, entrambi malati, che nell’attesa di un responso medico trovano un’intimità inaspettata. Poi Nico Quell, primo dei due protagonisti: giovane di buona famiglia, parte per il servizio militare. È un mondo lontano da quello in cui è cresciuto, protetto ma sterile. Nelle notti in caserma, ascoltando sé stesso, scopre la paura. E il confronto con i coetanei.
La caserma, i commilitoni, le adunate: il pensiero corre inevitabilmente a Pao Pao di Pier Vittorio Tondelli, per contrasto più che per affinità. Il lessico militare – libera uscita, andare a sparare – si intreccia al suono malinconico della tromba del maresciallo Santopadre, che accompagna la storia tragica di Amelia che uccide il figlio appena nato.
Intanto il romanzo si apre ad altri quadri: la scuola, con il funerale del giovane Arnaldo Coiro e le lacrime di Ivana Mattetti. Qui nasce la relazione tra Nanni Zingone e Rita Valtorta. Lei, perfetta. Lui, impacciato, dice solo: «Mi piaci… molto».
Da questo momento si affacciano sulla scacchiera nuovi personaggi: un professore di lettere, una modella, un’escursionista, una bambina geniale. Il mondo intero diventa romanzo.
Albinati ritrae vite singole e intime che parlano un linguaggio universale. E tra tutti, emergono i due protagonisti, Nico Quell che galleggia nell’instabilità e Nanni Zingone che cerca una stabilità impossibile. Simboli generazionali, due facce della stessa inquietudine.
«La letteratura è morta, gli scrittori sono vivi», scrive Albinati prima di congedarsi. E poco oltre aggiunge: «non è vero che l’amicizia resiste a lungo se non viene alimentata, dai fatti, e dalle parole, e dagli incontri…». Frasi che restano come l’eco di un pensiero ancora aperto.
Un’opera che archivia un mondo con nitidezza e profondità, ma non chiude il discorso: ci lascia con una domanda sospesa. È un elogio del presente o il presente come unica verità possibile?
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