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Into the wild

Solo ieri sono riuscito a vedere Into the wild, il bellissimo film di Sean Penn. Un film in cui immagini, parole e musica si giustappongono e si mescolano e alla fine quando scorrono i titoli di coda, in quegli attimi in cui rivedi tutto il film davanti agli occhi, non sai cosa ti sia piaciuto di più, le immagini, le parole o la musica appunto.

Un film estremo come estrema è l’esistenza che condurrà il giovane Christopher McCandless, attraverso un viaggio alla ricerca di se stesso, alla scoperta della verità, quella inseguita con ostinazione fin da ragazzo. È un film di parole, di libri e di pensieri. Ed è anche attraverso le parole e con l’aiuto di esse che Christopher riesce a dare un senso alla propria vita. Quando capisce che «Chiamare le cose con il proprio nome[…]» è un pezzo della sua ricerca il suo viaggio sta volgendo, ormai, al termine. Un viaggio, breve, intenso ed entusiasmante che lo porta ad incontrare umanità varia e condividere straordinarie emozioni che mai prima di allora aveva assaporato.
Cos’è la felicità e come la si può descrivere con le parole? Questa domanda ci accompagna per tutta la durata del film e costituisce la sua ragion d’essere. E quando Christopher scriverà con la sua mano ormai tremante tra le pagine di Jack London, Il richiamo della foresta, che la «felicità è soprattutto condivisione» e che quindi se non è condivisa semplicemente non è, ci avviamo ad assistere ad uno dei più bei finali che il cinema ha saputo esprimere negli ultimi anni.
La musica e la voce di  Eddie Vedder, front man dei Pearl Jam, ci trasporta in un mondo altro che è fatto di orizzonti senza fine e di vedute che tolgono il respiro. Ci emoziona e ci fa piangere di gioia assieme a Chris. Quelle lacrime un po’ trattenute negli occhi che Sean Penn ci mostra con un primo piano di Emile Hirsch, l’attore protagonista, da sole valgono il prezzo del biglietto. In quelle lacrime e in quella sequenza c’è una delle chiavi interpretative del film: Chris ha trovato se stesso, forse la sua reale e vera dimensione, e vive la bellezza e l’armonia della natura. Per questo piange. È un pianto di gioia e di comprensione. Un pianto quasi francescano, nella sua essenziale bellezza che non ha bisogno di parole.
Una storia che ci aiuta a riflettere sulla nostra vita, su ciò che è necessario e su ciò che non lo è. Una storia che fa scoprire il senso e il valore del viaggio, dentro e fuori di noi, anche a chi non ha intenzione d’intraprendere nessun viaggio.

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