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Abbiamo messo le mucche a guardare il fieno

Vincenzo Cerami è bravo e questo lo sanno in molti e il racconto pubblicato domenica sul Messaggero lo conferma in pieno. È la storia di due amici, lo stesso Cerami e di Giancarlo. Compagni di scuola che come tanti si perdono di vista e poi si ritrovano casualmente. Giancarlo è laureato in Giurisprudenza ma sceglie la poesia, anzi è la poesia che sceglie lui. Lo sceglie in maniera totalizzante fino a quella che Cerami definisce la “quasi felice” follia.

Si sa che gli artisti guardano oltre quello che a noi, comuni uomini, è concesso. E così è successo che Giancarlo è andato troppo in la e i suoi occhi, la sua mente e forse anche il suo cuore non riescono a stare più con noi.
Trovo questa storia paradigmatica della crisi generale che stiamo attraversando in questo inizio di nuovo millennio e che attraverso l’avventura umana di Giancarlo c’impone di aprire bene gli occhi e tenere dritte le antenne su tutto ciò che ci circonda.
Un inizio di nuovo millennio che mi sa di vecchio e inutile e triste, in cui, non si sa perchè, abbiamo messo le mucche a guardare il fieno.

Quel poeta fuori dal mondo
di Vincenzo Cerami
Non volevo crederci. Il discorso su Giancarlo è caduto così, per caso. Non lo vedevo da tempo. Abbiamo fatto tutto il liceo insieme, era bravo, simpatico, e soprattutto bello, alto, elegante, di ottima famiglia (suo padre era capo scalo di una compagnia aerea americana). Per tanti anni abbiamo condiviso studi. feste, gite, scuola, e ragazze… Dopo la maturità io mi sono iscritto a Fisica, lui a legge. Così, piano piano ci siamo persi. Ogni tanto ci incontravano in casa di amici comuni ed era sempre una gioia.
Dopo gli abbracci prendevamo subito a ricordare, con nostalgia, gli anni della speranza e della spensieratezza. Quanti progetti, quanto sogni avevamo in tasca! Ci ritrovavamo e uno presentava all’altro il resoconto della propria vita fino a quel giorno. Passavano gli anni e, naturalmente, i castelli di sabbia crollavano, la sicurezza di realizzare tutto ciò che ci era passato per la testa si era perduta, bisognava fare i conti con la dura realtà.
Un bel giorno incontro Giancarlo in una libreria, mi regala un libricino: erano sue poesie da poco pubblicate.
«Sono contento – gli ho detto – hai scoperto la poesia!»
«Ormai faccio l’avvocato come secondo lavoro, ciò che più mi interessa sono i versi!»
Insomma, piuttosto che le leggi della giurisprudenza, amava ciò che di bello e di brutto c’è dentro e intorno agli uomini, e la musica delle parole.
«Sono passato da ius a fas – mi ha detto – dalle leggi che legano uno all’altro i cittadini, alle leggi che allacciano l’uomo al mistero, e a Dio!»
Quella volta mi ha un po’ intimorito, ma lo vedevo felice, entusiasta delle proprie scelte. Tutto abbiamo immaginato da ragazzi, di fare i pompieri, gli scienziati, i giudici, gli statisti, i giornalisti, i calciatori… ma mai era venuta fuori la parola “poesia”. La nostra immaginazione non è all’altezza delle offerte della nostra vita.
Il caso ha voluto che pochi anni fa il destino ci ha rimesso vicini, per una settimana, d’estate, al mare, entrambi ospiti di un’amica, Sara. Giancarlo continuava a essere entusiasta della poesia.
«Adesso l’avvocato non lo faccio più! Leggo e scrivo poesie. E nient’altro!»
«E come campi?», gli ho chiesto.
«Qualche consulenza… comunque non ho bisogno di molto per campare, mi basta poco. Tutto sommato a un poeta serve un tetto, un lenzuolo d’estate e una coperta d’inverno, un piatto di minestra, carta e penna. Basta!»
Mi fece vedere alcuni articoli e saggi che i critici gli avevano dedicato: mi sembrava incredibile, parlavano di Giancarlo come di una certezza della nostra poesia, «un artista che si è già ritagliato un capitolo nella storia della Letteratura». Ed erano studiosi seri, spesso accademici, coloro che svisceravano tante lodi. Da quel giorno ho cominciato a capire e ad apprezzare profondamente la sua scelta. Lo invidiavo, perché non aveva altra ambizione, amava la poesia come un monaco il cielo. Mi sorprendeva, e restavo incantato nel vederlo così appassionato dell’arte e preoccupato per la sorte dell’umanità, raccontata per squarci e panorami, per deragliamenti, per figure laterali. Il suo grande amore per tutti gli uomini gli dava uno sguardo originale e struggente: vedeva cose che io neanche intravedevo; evitava di posare le suole su ciò che io, nella mia consapevolezza, calpestavo. Ogni tanto si allontanava e spariva per ore, e questo mi frustrava, mi faceva sentire un po’ solo: era la prova che alcuni argomenti erano solo suoi, non poteva dividerli, né con me né con Sara, che in effetti non era più felice come una volta. Non so se a causa di quelle fastidiose assenze, non l’ho più rivisto. Ci siamo vicendevolmente dimenticati, io preso dal lavoro, lui dalla poesia.
Finché, parlando a vanvera con un amico che conosceva Giancarlo, questo mi dice: «Hai saputo di Giancarlo?»
«Cosa gli è successo?»
«Se vai a piazza Adriano e nei dintorni, nei pressi di Castel Sant’Angelo, lo vedi. È tutto sporco, puzzolente, lacero, e gira con due cani tenuti con un unico guinzaglio. Ha uno zainetto sulle spalle pieno di buste e barattoli vuoti. Si siede per terra o su un gradino e parla da solo, oppure si mette a snocciolare monologhi rivolgendosi ai cani. All’ora di pranzo tira fuori dalla tasca una scatoletta di carne, ci mette mezz’ora ad aprirla, poi con un cucchiaino ne raccoglie un pezzetto e fa il giro: un cucchiaino al cane nero, uno al cane marrone e uno a lui. Poi ricomincia. Gli passano vicino le macchine, la gente, i vigili urbani… lui non vede niente, è completamente chiuso nel suo mondo, e se cerchi di capire cosa dice, non capisci niente, non sai con chi se la prende. lo sono andato a vederlo, me lo sono studiato per ore, fa sempre le stesse cose. Volevo accostarmi, ma ti confesso che avevo paura, mi faceva paura… forse l’antica paura della pazzia!»
Il giorno dopo l’ho cercato, la notte non avevo fatto che pensare a lui, l’ho trovato subito. Ne ho seguito da lontano il comportamento, avevo gli occhi lucidi, volevo piangere e gridare di rabbia. Poi mi sono fatto forza e gli sono andato davanti. Lui neanche mi guardava. L’ho chiamato: «Giancarlo!» Stava seduto su un gradino, la ringhiera dei giardini alle spalle. Ha sollevato lo sguardo e mi ha fissato a lungo, all’inizio con un sorriso ebete, poi, lentamente, ha cambiato espressione. Mi accorgevo che faticava a far emergere, dall’abisso, un barlume di luce. Dall’espressione del viso intuivo tutto il suo sforzo nel cercarmi laggiù, in fondo alla memoria.
«Sei andato troppo lontano, Giancarlo – gli ho detto con un singhiozzo che mi strozzava – troppo lontano. Non ce la fai a tornare indietro, eh?»
Lui mi guardava, mi guardava, mentre i cani scodinzolavano. E io ancora: «Speriamo che tu stia bene laggiù, non mi sembri infelice. Hai staccato la spina, vero Giancarlo? Te ne sei andato… Non scrivi più, chi sa la poesia cosa ti ha fatto scoprire!»
Giancarlo, con immane fatica, ha lasciato fiorire un vero sorriso, e mi ha detto: «Abbiamo messo le mucche a custodire il fieno!» Poi mi ha liquidato spegnendo di nuovo gli occhi. Me ne sono andato, ma prima di girare l’angolo mi sono girato un ultima volta.

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