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Intervista a Pino Aprile. «Tremonti? Drena al Sud e porta al nord»

Terroni. Tutto quelle che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, l’ultimo libro di Pino Aprile, rappresenta un’occasione rara per parlare, al di fuori delle celebrazioni ufficiali e senza retorica, del processo di unificazione dell’Italia. Di ciò che eravamo e di ciò che siamo diventati. Stabilmente ai vertici di tutte le classifiche di vendita in Italia si è aggiudicato il premio letterario Carlo Levi 2010 per la sezione saggistica.

Il suo ultimo libro è una riflessione che aiuta a comprendere meglio ciò che accadde 150 anni fa. Non è un libro contro l’Unità d’Italia piuttosto un percorso di conoscenza, «[…] la storia di oggi è ancora quella di ieri: La nostra fu interrotta e si può riannodarla solo nel punto in cui venne spezzata. Non si può scegliere la ripartenza che più conviene».
Stupefacente: in questo Paese, un ministro della Repubblica e “padrone” di un partito territoriale nato con propositi dichiaratamente razzisti (tenacemente perseguiti) minaccia il ricorso a venti milioni di fucili, proclama la secessione un giorno sì e l’altro no, chiede il varo di un federalismo che ha lo scopo, nemmeno tanto recondito, di spaccare il Paese, drenando anche gli ultimi spiccioli nelle regioni già più ricche. Ma secessionista sarei io, solo per aver raccontato (e non era nemmeno il terzo segreto di Fatima) com’è stata fatta l’unità d’Italia, cosa fu fatto al Sud e contro il Sud durante il Risorgimento. E anche dopo, e ancora oggi. Dallo storico paludato al critico del Corriere della Sera, che parla alla fine del 2010 del successo di Terroni, non ti senti rimproverare di aver detto il falso, ma di aver detto il vero. Ovvero: hai ragione, ma dovevi stare zitto lo stesso, perché così si “delegittima” l’unità del Paese. E quando si dovrebbe dire se non bastano nemmeno150 anni? Insomma: se hai torto, hai torto; se hai ragione, hai torto per aver rivendicato la verità nel momento sbagliato. Per questo motivo hai torto sempre. Piuttosto venti milioni di fucili sono l’espressione del malessere del Nord che va analizzato e di cui si deve tenere conto.

Con dati riscontrabili spiega perché le leggi promulgate subito dopo il 1861 hanno reso diseguali il Nord e il Sud dell’Italia rendendo più ricco il Nord e più povero il Sud, «Nel 1876 e nel 1886 si vararono norme per aiutare i comuni più piccoli e poi quelli poveri, perché piccoli  […] la Lombardia riceve 79,44 lire ogni diecimila abitanti, il Piemonte 68,81, la Calabria 12,79 e per finanziare l’istruzione inferiore, alla Liguria si danno 15.625 lire ogni diecimila abitanti, alla Calabria 80».
Né più né meno di quanto accade oggi, con un ministro dell’Istruzione (non fate quelle facce, lo so che non ci si crede, ma Mariastella Gelmini è davvero ministro dell’Istruzione!) che re-distribuisce in tutt’Italia i soldi stanziati per mettere in sicurezza le scuole dissestate del Mezzogiorno; o con Giulio Tremonti, ministro delle Finanze padane infiltrato nel governo nazionale, che drena decine di miliardi di euro destinati al Sud e li porta al Nord. La storia di oggi è ancora quella di ieri. Confermo.

«Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek» canta Fabrizio De André. Il cantautore genovese, che lei cita in Terroni, con Fiume Sand Creek ha reso indimenticabile una delle stragi compiute dai soldati americani nei confronti di Cheyenne e Arapaho. Tutto ciò avveniva nel 1864. Pochi anni prima in Campania i bersaglieri rasero al suolo e bruciarono Casalduni e Pontelandolfo.
Beh, e che hanno da lamentarsi i meridionali? Mica sono indiani sul Sand Creek! Per i quali ci si commuove e piange, si condanna il massacro. Ed è giusto. Non sono ebrei sotto il nazismo, per i quali ci si commuove e piange; e si condanna il massacro. Ed è giusto. Non sono vietnamiti trucidati da statunitensi a My Lai, per i quali commuoversi e piangere. Ed è giusto. Non sono italiani del Nord sterminati dai tedeschi a Marzabotto, per i quali il Paese si commuove e piange. Ed è giusto. Mentre la strage fra i cinquemila abitanti di Pontelandolfo e i tremila di Casalduni e quelli di decine di altri paesi, compiuta, con diritto di strupro e di saccheggio, dai bersaglieri del generale Cialdini e di altri macellai pluridecorati, in tutto il Sud, rientra nella “normale ferocia” delle guerre civili. Almeno così dissertano Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera, e Francesco Merlo, su Repubblica. Rievocare queste stragi rappresenta un attentato all’unità nazionale. Quando non peggio: Aldo Cazzullo, su Sette, rivela (ha capito tutto, accidenti!) che lo avrei fatto solo per vendere più copie. Credo sia abituato a misurare tutto con il suo metro.

Dopo quella che lei chiama «L’invasione del Sud» il Mezzogiorno d’Italia conosce un nuovo fenomeno: l’emigrazione. Per farlo cambia registro e si affida alla poesia raccontando storie di alberi. Chi sono i “patriarchi” e perché possono spiegarci un fenomeno come l’emigrazione?
Esiste, ai piedi del Pollino, un uliveto che potrebbe avere più di tremila anni, secondo la datazione compiuta da uno studioso che vi ha dedicato tempo e passione. E la cosa coinciderebbe con una leggenda e una nota giuntaci da un autore classico, Servio, in un commento a Virgilio: sarebbero stati esuli troiani fondatori, lì, di un “castrum” un castello fortificato, a piantare quegli ulivi. Ma l’ulivo diviene millenario, solo se costantemente curato dall’uomo, altrimenti, non sopravvive oltre i 300-400 anni. Vuol dire che, da tre millenni, quell’uliveto viene assistito, potato. Dopo le stragi e i saccheggi e la spoliazione del Sud, compiuti con l’invasione e l’annessione savoiarda (l’Italia era da farsi, ma si scelse il modo peggiore), la montagna rischiò di spopolarsi e l’uliveto di perdere i suoi sacerdoti e di morire, dopo tremila anni. Mai, in tutto quel tempo, era esistita emigrazione, da quelle terre, sino a che…

«[…] il Sud vide lacerare il suo tessuto sociale dalle stragi dell’Unità, poi dai milioni di emigranti a cavallo del Novecento, poi dai milioni di emigranti “interni” e “ clandestini” durante il fascismo; poi da quelli del “miracolo economico”; oggi dai giovani laureati in fuga». C’è una responsabilità dei meridionali in tutto ciò e se c’è qual è?
Aver perso la memoria. E con quella l’autostima e la coscienza dei propri diritti; primo fra tutti, quello all’equità. Aver accettato la condizione semicoloniale, la subalternità, la convinzione di non poter pretendere le stesse attenzioni che il Paese dedica agli italiani del Nord e del Centro; di non poter avere le stesse autostrade, le stesse linee, carrozze, velocità ferroviarie, gli stessi aeroporti. Questo adeguamento alla minorità matura rapidamente e in modo durevole, in forza di meccanismi psicologici e psico-sociali come ci dicono studi in materia. Si può uscirne. Basta prendere coscienza e per prendere coscienza bisogna innanzitutto sapere.

«Non siamo un paese, perché é mancata, dopo il Risorgimento, dopo il fascismo, la civiltà di esaminarsi e giudicarsi».  Quel momento può essere il 2011?
Da quel che vedo, da quel che sento, da quel che leggo, direi di sì.

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