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Ferdinando Imposimato e la verità sull’“Affaire Moro”

Ferdinando Imposimato

Ferdinando Imposimato

Questo articolo è pubblicato anche su restoalsud.it

Ferdinando Imposimato è uno di quegl’uomini che rappresentano al meglio il nostro Paese. Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, ha svolto nella sua lunga carriera di magistrato molti compiti eccellendo sempre per la qualità dei risultati conseguiti. I tanti riconoscimenti ottenuti, nazionali e internazionali, testimoniano la bontà del suo lavoro, valga per tutti l’onorificenza ottenuta nel 1999 che lo nomina Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Nella sua carriera professionale si è occupato di mafia e camorra oltre che di terrorismo. È stato giudice istruttore di molti processi che hanno attirato l’attenzione di tutto il mondo sulla sua persona e sulla giustizia italiana. Il processo per l’attentato a Papa Giovanni Paolo II e il processo per il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.
Il suo ultimo libro (I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia) si occupa dei 55 giorni che intercorrono tra il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Un libro che aggiunge altri lacerti di verità all’avvenimento più buio della storia repubblicana dell’Italia.

Giudice Imposimato il suo ultimo libro riaccende la luce sull’omicidio del caso Moro. Concorda nel definire il rapimento e l’omicidio del presidente della Democrazia Cristiana come il momento più buio della storia repubblicana?
Senz’altro. Il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, assieme alla strage di via Fani, rappresentano non solo il momento più terribile della storia repubblicana, ma anche quello in cui il Paese ha conosciuto una svolta verso una democrazia illusoria, nella quale la volontà dei cittadini era ininfluente nella formazione dei governi e le dinamiche politiche sono state condizionate da forze occulte che agivano in sinergia con esponenti del crimine organizzato. Uno stato illegale parallelo allo Stato ufficiale.

Dalla lettura del suo libro si evince che il rapimento e l’omicidio del «meno implicato di tutti», come scriveva Pier Paolo Pasolini a proposito di Aldo Moro, non furono affrontati in maniera irreprensibile dai vertici dello Stato italiano. In particolare lei focalizza l’attenzione su Francesco Cossiga e Giulio Andreotti.
Giulio Andreotti e Francesco Cossiga erano seguaci e sodali di Licio Gelli, del quale raccolsero le indicazioni per la nomina dei vertici dei servizi segreti civili e militari. Questi ebbero un ruolo fondamentale nella gestione del sequestro Moro durante i 55 giorni attraverso un Comitato di Crisi, illegittimo e occulto, di cui facevano parte Federico Umberto D’Amato (tessera P2 n° 554) capo dell’Ufficio affari riservati del Viminale, Giuseppe Santovito (tessera P2, n° 1630) capo del Sismi e vertice di Gladio che informava Andreotti e Cossiga sulla prigionia di Moro, l’ammiraglio Giovanni Torrisi, (tessera P2 n° 631) che ospitava le riunioni supersegrete del Comitato di Crisi al Ministero della Difesa Marina alle quali partecipava Gelli con il falso nome dell’ingegner Luciani, Pietro Musumeci (tessera P2 n° 487) vice capo del Sismi che informava il Ministro Cossiga dello sviluppo del sequestro Moro direttamente o attraverso il sottosegretario Nicola Lettieri. Ma non si limitarono a questo. Erano stati informati, Andreotti e Cossiga, dai vertici militari di Gladio sulla prigione di Moro in via Montalcini n 8 interno 1, ma non consentirono al generale Dalla Chiesa, secondo alcune testimonianze, d’intervenire nella prigione per liberare Moro.

A supporto di questa tesi, tra i tanti riscontri riportati nel suo libro, cita le parole di Steve Pieczenik.
A parlare del ruolo di Cossiga e Andreotti è stato Steve Pieczenik, braccio destro di Kissinger che lo ha confessato in una video intervista registrata al giornalista francese Emmanuel Amarà, «La decisione di fare uccidere Moro non è stata presa alla leggera. Ma Cossiga ha saputo reggere questa strategia e assieme abbiamo preso una decisione estremamente difficile, soprattutto per lui. Ma la decisione finale è stata di Cossiga e, presumo, di Andreotti». E giustificando la sua partenza anzitempo da Roma, Pieczenik aggiunse che a loro (Cossiga e Andreotti) «non interessava affatto tirare fuori Moro vivo. Capii che la mia presenza a Roma aveva l’unico scopo di legittimare ciò che stavano facendo, che io ero funzionale ai loro obiettivi».

Così come riporta alla luce la famosa lettera del 2 marzo 1978 con la quale il ministero della Difesa chiede «collaborazione e informazioni utili alla liberazione dell’onorevole Aldo Moro» ai servizi segreti inglesi.
La lettera del 2 marzo 1978 in cui si parlava del sequestro Moro non ancora avvenuto, era autentica. Era stata scritta perché si sapeva che Moro doveva essere rapito alla fine di febbraio -primi di marzo 1978. Ma venne nascosta ai magistrati che indagavano e avrebbero potuto disporre una perizia tecnica. Cossiga la liquidò come falsa senza informare i magistrati. Io seppi di quella lettera 26 anni dopo, quando ero fuori dalla magistratura. Il “gladiatore” Arconte cui venne consegnata ha detto la verità, così come la disse il presidente della Commissione Difesa Accame, ma non venne creduto. Molti sapevano prima del rapimento di Moro che stava per avvenire, come appresi da una lettera segreta dei servizi segreti francesi.

A questo proposito lei scrive: «Oggi invece sappiamo, grazie alle concordanti e spontanee testimonianze di Giovanni Ladu e Oscar Puddu, che i reparti inglesi del SAS erano attestati proprio nell’appartamento sopra quello in cui era tenuto prigioniero Aldo Moro per piazzare le microspie e i registratori. Di questa presenza, tuttavia, non c’era alcuna traccia nelle carte del processo e nelle informative dell’allora ministro Cossiga».
Non sapemmo assolutamente nulla di questa scoperta che è stata confermata da diversi testimoni diretti, militari che sarebbero dovuto intervenire per liberare Moro, ma che ricevettero l’ordine, il 7 maggio 1978, di abbandonare le postazioni. Tutto questo è venuto fuori tra il 2008 e il 2013.

Gli argomenti che lei utilizza nel libro sono, a distanza di molti anni, non dissimili da quelli che utilizzò il giornalista Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979, la cui morte potrebbe essere strettamente collegata proprio al caso Moro. E contro gli articoli di Pecorelli si scagliò ripetutamente proprio Francesco Cossiga.
Pecorelli probabilmente ebbe informazioni dal generale Dalla Chiesa che sapeva della prigione e voleva intervenire. Gli fu impedito con la scusa che, con quella operazione militare, Moro avrebbe rischiato la vita. È probabile che sia Pecorelli che Dalla Chiesa siano morti perché depositari di questo terribile segreto. Non credo però che Pecorelli sapesse esattamente dove fosse la prigione di Aldo Moro.

Se al tempo dell’istruttoria del processo Moro avesse avuto le informazioni che possiede oggi avrebbe incriminato Cossiga e Andreotti per tradimento della Costituzione italiana?
Bisogna chiederlo al Procuratore della Repubblica di Roma, che è titolare dell’azione penale. Io credo che ci fossero questi elementi che si ricavano dall’art. 40 cp: «non impedire un evento che si ha il dovere giuridico di impedire equivale a cagionarlo».

Proseguirà nella ricerca della verità sul caso Moro?
La ricerca l’ho fatta perché alcuni militari si sono rivolti a me per dirmi delle cose che all’inizio ho considerato incredibili. Poi ho dovuto riconoscere che erano vere o altamente verosimili. Ringrazio il Procuratore della Repubblica di Roma dott. Giuseppe Pignatone per avere dedicato la sua attenzione al libro denunzia, così come ringrazio il dott. Luca Palamara che sta indagando con solerzia.

E infine, cosa può imparare il popolo italiano da questa assurda e triste vicenda?
Senza la verità questo paese non può rinascere. Il contributo all’appassionata ricerca della verità e della giustizia è sicuramente superiore alle astuzie della politica calcolatrice che a lungo andare provoca sfiducia e critiche aspre.

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