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Nella Top 11 dei più forti e famosi numeri 10 di tutti i tempi, stilata dalla FIFA, figurano tre argentini, due brasiliani, due francesi, un italiano, un tedesco, un ungherese e un romeno. E se consideriamo che l’antesignano e, per certi versi, il prototipo del numero 10, Omar Sivori, non fa parte di questa classifica, possiamo affermare con assoluta tranquillità che l’Argentina è certamente la terra e la patria dei numeri 10.
Da quando la numerazione per le squadre di calcio è diventata una regola fissa e uguale per tutti, inizialmente tale numerazione andava dall’1 all’11 mentre oggi è libera, la maglia che esercita il fascino maggiore è proprio la numero 10.
La 10 è la maglia del campione, la più ambita dai calciatori di talento. Ed è sul numero 10 che si ripongono le aspettative e le speranze dei tifosi quando le partite diventano importanti per la conquista di un titolo. La popolarità stessa del calcio nel mondo si è costruita, spesso, sul calciatore che indossava la numero 10.
Enrique Omar Sivori arriva in Italia all’età di 21 anni dall’Argentina preceduto da una fama spropositata per la sua età. In patria giocava con il River Plate che con i soldi del suo trasferimento, le cronache dell’epoca parlano di dieci milioni di pesetas, riuscì a ristrutturare lo stadio Monumental. Sivori era uno degli «Angeli dalla faccia sporca», gli altri due erano Maschio e Angelillo, e con loro, indossando la maglia della nazionale argentina, aveva vinto il campionato sudamericano.
Giocava a «stinchi nudi» per dimostrare a tutti e in primo luogo ai suoi avversari, che non aveva paura di niente, nemmeno dei pestoni. Lui era, semplicemente, il più forte. Giocava con un piede solo, il sinistro, ma con quel piede sapeva fare tutto. L’Italia degli anni Sessanta sì innamorò perdutamente di quel genio che vestì la maglia numero 10 della Juventus. Con i bianconeri segnò 170 reti in 257 partite vincendo 3 scudetti, 3 volte la Coppa Italia e un titolo di capocannoniere del campionato. Nel 1961 vinse il Pallone d’oro, prima volta per un calciatore che militava nel campionato italiano.
Se la maglia numero 10 ha acquistato valore nel tempo, tanto da diventare la più desiderata, molto si deve a questo uomo nato in un piccolo paese della cintura di Buenos Aires.
Il meno famoso dei tre numeri 10 argentini presenti nella Top 11 della FIFA è Mario Alberto Kempes Chiodi.
Kempes indossava la maglia numero 10 quando l’Argentina vinse il suo primo campionato del mondo, nel 1978, giocando in casa propria. Una delle pagine più buie della storia di questo sport che accettò, supino e senza ribellarsi, di disputare la competizione in presenza di una dittatura militare. La dittatura di Videla iniziò nel 1976 e terminò nel 1983 con un bilancio di 30.000 morti e desaparecidos.
In quel mondiale giocava da ala sinistra in un tridente che schierava a destra Daniel Bertoni, che giocherà nella Fiorentina di Giancarlo Antognoni, sublime numero 10 di casa nostra, e come centravanti Leopoldo Luque. Fu il capocannoniere del mondiale con sei reti e fu giudicato anche il miglior calciatore in assoluto della competizione. «Mario Alberto Kempes, il Che Guevara del futbol, capelli lunghi e disordinati» non ha mai amato essere al centro dell’attenzione e non si è mai vantato di ciò che ha ottenuto con il calcio. Fu l’unico della sua squadra che non strinse la mano al dittatore durante la cerimonia di premiazione. E quando quattro anni più tardi si disputò il mondiale in Spagna non esitò a riconoscere il genio del più grande dei numeri 10 di tutti i tempi.
«Ai mondiali dell’82 avevo ancora la maglia numero 10, a Maradona avevano dato l’11, ma lui non lo voleva, mi chiese di fare a cambio, l’ho abbracciato e gli ho detto di sì: tu sei il più grande, per me i numeri non contano». E qui entra in scena “il” numero 10: Diego Armando Maradona.
Sul “pibe de oro” è stato scritto tutto. Sulla sua bravura calcistica e molto di più sulla sua vita fuori dal campo di gioco. Ma se per le traversie che hanno lo hanno accompagnato fuori dal campo di gioco, ci sono state parole, mai consolatorie, adatte a descrivere i vari periodi della sua vita per ciò che ha espresso sul rettangolo verde, non credo ci siano le parole giuste e adatte per raccontare ciò che realmente è stato per il mondo del calcio Maradona.
La bellezza e la naturalezza dei suoi gesti tecnici non possono essere raccontate con la giusta aderenza alla realtà: semplicemente non esistono parole adatte per esprimere la gioia e la felicità che Diego ha regalato a tutti gli appassionati di calcio. E questa bellezza si liberava non solo quando giocava le partite ufficiali, ma anche quando si allenava.
Il 19 aprile del 1989 all’Olympiastadion di Monaco di Baveria si gioca Bayern Monaco-Napoli, semifinale di ritorno di Coppa Uefa. Mentre la squadra del Napoli è in campo per il riscaldamento dagli altoparlanti dello stadio parte la musica degli Opus, “Live is Life”. E qui comincia la magia di Diego che assecondando il ritmo della canzone improvvisa una danza con il pallone, che non toccherà mai terra, che lascia senza fiato ancora oggi a 25 anni di distanza.
Di Diego Armando Maradona è il gol che è stato definito il più bello del XX secolo. Ecco come lui stesso lo ricorda nella sua autobiografia “Io sono El Diego”.
«A Fiorito avevo sempre sognato di far un gol così, un giorno, nel campetto con l’Estrella Roja. Invece lo feci in un mondiale, per il mio paese […] Andò così: io cominciai da dietro la metà campo, sulla destra; misi il pallone a terra, mi girai e passai tra Beardsley e Reid; e già lì avevo la loro porta in mezzo agli occhi, anche se mi mancava ancora qualche metro…Con un controllo verso l’interno superai Butcher ed è da quel momento che Valdano cominciò ad aiutarmi, perché Fenwick, che era l’ultimo, non mi veniva sotto! […] Allora lo affrontai io, fintai in dentro e me ne andai fuori, sulla destra […] Così arrivai fino in fondo e, tac!, la misi dentro».
Emir Kusturica, il geniale regista cinematografico di Sarajevo autore di “Underground”, capolavoro assoluto della cinematografia mondiale che vinse la Palma d’oro a Cannes nel 1995 così parla del “pibe de oro” struggente film che gli ha dedicato dal titolo “Maradona by Kusturica”. «Diego è un’icona. La più grossa icona degli ultimi venti o trent’anni, su questo non c’è dubbio. E la sua non è una popolarità costruita dai media, dalla Coca-Cola o dalla Pepsi, come accade per i giocatori di oggi […] Se Diego è diventato un’icona è stato grazie alle sue partite e ai suoi gol, non a quello che faceva fuori dal campo». Il film termina con Manu Chao appoggiato al muro di una casa di periferia che, chitarra al collo, dedica al più grande calciatore di tutti i tempi la ballata: «Si yo fuera Maradona». Diego è di fronte a lui e lo ascolta in piedi, mani tasca, barba incolta e crocifisso in bella mostra su una t-shirt nera. Piange e non fa nulla per nascondere quelle lacrime. Vero sino in fondo, vero fino alla fine.
Il terzo argentino presente nella Top 11 è Lionel Messi che a 27 anni è considerato tra i calciatori più forti di tutti i tempi. Nato a Rosario il 24 giugno del 1987 ha giocato, fino ad oggi, solo con la maglia del Barcellona e dell’Argentina.
Il suo Palmarès fa venire la pelle d’oca. 8 Campionati spagnoli vinti, 2 Coppa di Spagna e 6 Supercoppe, 3 Champions League, 2 Supercoppa UEFA e 2 campionati del mondo per club. Con la nazionale argentina, 1 campionato del mondo under 20 e l’oro olimpico a Pechino nel 2008. I successi individuali sono ancora più numerosi, su tutti spiccano i 4 palloni d’oro che ha vinto come miglior calciatore europeo. Ciò che manca è la vittoria del campionato del mondo con la nazionale maggiore. Una storia che potrebbe essere scritta proprio in questi giorni e se ciò dovesse succedere proprio nel “campionato dei campionati”, così come è stato definito il mondiale brasiliano, il podio dei più grandi numeri 10 della storia del calcio sarebbe completo per sempre. Maradona, Pelè e “Leo” Messi.
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