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Il calcio brasiliano da Mané Garrincha a Neymar jr

Il Centro_25 giugno 2014_18-19

Questo articolo è pubblicato anche sui quotidiani on line del Gruppo L’Espresso la Repubblica

Il Brasile di Neymar Jr ha giocato e vinto l’ultima partita del girone di qualificazione del mondiale brasiliano a Brasilia, la capitale del Paese. Estadio Nacional, capienza 68.000 spettatori, intitolato a uno dei campioni più amati che abbiano mai giocato con la maglia verde oro: Manoel Francisco dos Santos, conosciuto come Mané Garrincha. Uno dei migliori interpreti del suo ruolo, era un’ala destra, oggi si direbbe esterno alto. E nello stadio intitolato a Mané Garrincha non delude le aspettative e le attese il giovane Neymar da Silva Santos Júnior, conosciuto come Neymar Jr che contro il Camerun gioca la sua cinquantaduesima partita in nazionale, segnando una doppietta e raggiungendo la cifra ragguardevole di 35 gol in maglia verde oro a soli 22 anni. In questo mondiale ha segnato già quattro gol in sole tre partite.

La lunga storia del calcio brasiliano che da Mané Garrincha porta a Neymar, dal mondiale del 1958 in Svezia a quello del 2014 in Brasile, ci racconta l’evoluzione dello sport più popolare al mondo e insieme del cambiamento che è avvenuto nei valori e negli atteggiamenti condivisi dentro una comunità. Garrincha e Neymar, due stelle di prima grandezza del calcio brasiliano e mondiale, rappresentano, plasticamente, la mutazione antropologica (culturale) che è avvenuta nella società e di conseguenza anche nel mondo del calcio. Sebbene il secondo sia ancora molto giovane, e scriverà la parte migliore della sua storia calcistica negli anni a venire, riflettere sul loro modo di essere calciatori e uomini ci aiuta a capire come siamo cambiati e come sia cambiato, insieme a noi, il mondo che abitiamo.
«Uno dei suoi tanti fratelli lo ribattezzò “Garrincha”, che è il nome di un uccellino bruttarello e inutile. Quando cominciò a giocare al calcio, i medici gli diedero l’estrema unzione: diagnosticarono che non sarebbe mai arrivato a essere uno sportivo quell’anormale, quel povero avanzo della fame e della poliomelite, asino e zoppo, con un cervello infantile, una colonna vertebrale fatta a S e le due gambe piegate dallo stesso lato».
E sì, colui che sarebbe diventato Mané Garrincha non era un eroe bello e perfetto come il giovane Neymar Jr. Non era un prodotto già pronto per la pubblicità, ma un ragazzo con una salute cagionevole che aveva avuto un’infanzia difficile. Era stato operaio, fin da ragazzo e per necessità economiche della sua famiglia, in una fabbrica tessile. “Sport Club Pau Grande” è il nome della squadra amatoriale di quella stessa fabbrica dove iniziò a giocare al calcio. Un’infanzia molto diversa dal giovane Neymar che a quindici anni guadagna già abbastanza con il calcio, mentre a diciassette anni firma il suo primo contratto da professionista con il Santos. Poco più che maggiorenne è già una miniera d’oro, ha undici sponsor personali, e a vent’anni tra ingaggio e introiti pubblicitari, guadagna più di sei milioni di euro l’anno.
«Non c’è mai stata ala destra come lui. Nel Mondiale del 1958 fu il migliore nel suo ruolo. Nel Mondiale del 1962 fu il miglior giocatore del campionato. Ma nel corso degli anni che ha trascorso in campo, Garrincha è stato di più: è stato l’uomo che ha regalato più allegria in tutta la storia del football».
Un attaccante che sapeva regalare gioia agli spettatori, che giocava per il pubblico, solo per il pubblico. Ha vinto due campionati del mondo, nel 1958 e nel 1962, disputando cinquanta partite ufficiali con la maglia della nazionale brasiliana. Con la maglia verdeoro ha perso solo una volta, in occasione della sua ultima partita, contro l’Ungheria. Con Pelè, il più grande calciatore brasiliano di tutti i tempi, ha disputato quaranta partite in nazionale, giocando insieme, ne hanno vinte trentacinque e pareggiate le restanti cinque.
L’allegria non sembra essere, invece, l’aspetto preminente del repertorio della stella contemporanea Neymar. Si è già reso protagonista di alcuni episodi non proprio edificanti per un giovane campione. Due gli episodi più spiacevoli nella sua ancor breve carriera, una rissa in campo scaturita dopo gli insulti rivolti agli avversari e l’esonero di un allenatore che aveva avuto l’ardire di metterlo in panchina per due partite consecutive. Dorival Júnior è il nome dell’allenatore del Santos, con il quale peraltro vinse un campionato paulista e la Coppa del Brasile, che per non aver fatto tirare un calcio di rigore al giovane eroe è stato costretto a lasciare la panchina della sua squadra.
La distanza e le differenze tra i due campioni si accentuano se dal campo, dal calcio giocato, si passa alla vita privata.
«Giocava per un club chiamato Botafogo che significa “accendi fuoco”, e proprio così era lui: il Botafogo, che incendiava gli stadi, pazzo per l’aguardiente e per tutto ciò che ardeva, quello che scappava dai ritiri calandosi dalla finestra, perché da qualche posto lontano lo chiamava un pallone che chiedeva di essere giocato, una musica che chiedeva di essere ballata, qualche donna che voleva essere baciata».
Una vita privata difficile e scandita da eccessi quella di Garrincha. Più di dieci figli avuti da donne diverse, dissipata con l’alcol che sarà anche la causa principale della sua morte.
Tranquilla, al contrario, quella del giovane Neymar. Fidanzato con una sua coetanea, ha già un figlio, nato da una precedente relazione sulla quale non si hanno notizie. Conduce una vita regolare, da atleta. «Un vincitore? Un perdente fortunato. E la fortuna non dura. Non per altro in Brasile si dice che se la merda valesse qualcosa i poveri nascerebbero senza culo. “Garrincha” morì della sua morte: povero, ubriaco e solo».
Manoel Francisco dos Santos muore all’età di quarantanove anni, dopo aver vissuto gli ultimi anni della sua vita in condizioni molto difficili, tra depressione e ricoveri, sempre più frequenti, in ospedale. Sulla sua tomba c’è scritto «Qui riposa in pace colui che fu la Gioia del popolo, Mané Garrincha».
Neymar è invece nel pieno della sua vigorìa fisica e gioventù. Non è povero, non è alcolizzato e non è solo. A ventidue anni è uno dei calciatori più famosi al mondo, ricco e con una prospettiva di vita molto diversa rispetto al suo illustre predecessore.
Il tempo che divide e separa la storia sportiva e la vicenda umana di Mané Garrincha e Neymar ci dice che il calcio degli anni Sessanta e Settanta si è trasformato in qualcosa di molto diverso. Il calcio è oggi un prodotto globalizzato e il suo management risponde più ai consigli di amministrazione delle televisioni a pagamento che agli organismi di cui si è dotato. È un calcio in cui non esistono più differenze, quelle differenze che avevano reso grande il calcio nel mondo.
È infatti sempre più difficile, se non impossibile, incontrare storie come quella di Garrincha, ma è anche più difficile, se non impossibile, godere di quella stessa, spensierata, allegria che l’uccellino che saltellava in campo era capace di offrire al pubblico.
Gli eroi sportivi di oggi non sono più brutti, sporchi e dissoluti, al contrario sono belli, puliti e superdotati da un punto di vista fisico, ciò che non è cambiato è la bellezza del gesto tecnico di un campione e l’emozione che genera un gol.
«Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te l’aspetti salta fuori l’impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia».
Per scrivere questo articolo ho utilizzato, in maniera consapevole e con grande deferenza, le parole che Eduardo Galeano, in “Splendori e miserie del gioco del calcio”, ha dedicato a Manè Garrincha e, più in generale, al calcio. Ho avuto così la sensazione di avere accanto uno dei più grandi intellettuali della cultura mondiale e sudamericana in particolare. Anche questa è allegria. È l’allegria che preferisco.

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