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Nell’incipit, spesso, è racchiuso il significato di un intero romanzo.
«Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo», è uno degli incipit più famosi della storia della letteratura mondiale. Il romanzo è del 1877, lo ha scritto Lev Tolstoj, il titolo è: Anna Karenina.
Certo l’intreccio narrativo di Anna Karenina è più complesso, così come lo sono i temi che riguardano la società dell’Ottocento che in questo capolavoro della letteratura russa sono chiari e intellegibili come dipinti sulla tavolozza di un pittore verista. Ma in quell’incipit è comunque racchiuso il significato più profondo della narrazione di Tolstoj.
Analogamente ieri quando Leo Messi è sbucato dal corridoio che collega gli spogliatoi del Maracanã al campo di gioco, era evidente che la sua squadra, l’Argentina, non avrebbe vinto la partita e il mondiale. Quell’incipit, quell’immagine, diceva già tutto.
È entrato per primo a testa bassa, china, come sempre. Non un sorriso, ma solo preoccupazione nemmeno celata. Non c’era allegria nei suoi occhi, ma tensione e preoccupazione. Quel fotogramma del campione più celebrato del calcio contemporaneo, che entra in campo per disputare la partita più importante della sua vita, racconta di una sconfitta già scritta.
Lo stesso, identico, fotogramma che abbiamo visto anche alla fine della partita quando il dramma sportivo si era consumato. Ancora una volta in testa al gruppo e ancora una volta con la testa china senza un sorriso.
Al contrario i calciatori tedeschi quando sono scesi in campo per il riscaldamento erano molto più tranquilli. Alcuni, addirittura, sorridevano. Sorrisi sobri, com’è nella natura dei tedeschi, ma erano comunque sorrisi. Belle facce pulite di giovani calciatori che restituiscono una dimensione più umana al calcio di oggi. Sono ragazzi normali che appartengono a più culture e che sono perfettamente integrati nella società tedesca. Molti sono figli di immigrati che hanno contribuito a rendere grande quel Paese svolgendo, spesso, lavori umili. Sono ragazzi dalla faccia pulita, senza tatuaggi. Qualcuno, addirittura porta i capelli con la riga di lato proprio come si usava una volta nella società preconsumistica che abitiamo e non improbabili architetture decostruttiviste. E anche quando è giunto il triplice fischio finale dell’italiano Nicola Rizzoli, la gioia e la felicità che hanno espresso è stata grande, ma non tanto grande da rendere ancora più amara la sconfitta degli avversari. Direi una lezione di civiltà, educazione e sobrietà che supera anche la lezione di calcio che ha inflitto a tutte le concorrenti di questo campionato del mondo.
Le reazioni emotive dei vincitori, ma soprattutto quelle di chi ha perso, spiegano, a volte, molto più di un trattato di antropologia e narrano gesta che spesso sono invisibili agli occhi. Parlano della natura umana, quella più intima e profonda.
Per esempio se riavvolgiamo il nastro della memoria e torniamo al 17 luglio del 1994 a Pasadena negli Stati Uniti d’America, e ci ricolleghiamo mentalmente a quella finale mondiale riscopriamo la natura di due tra i più grandi calciatori italiani di sempre. La partita era Italia-Brasile, i calciatori Franco Baresi e Roberto Baggio che fallirono, entrambi, un calcio di rigore consegnando ai carioca la Coppa. Le reazione dei due calciatori fu diversa. Franco Baresi, che in quel mondiale s’infortunò gravemente e tornò in campo proprio per la finale dopo un’operazione al menisco, alla fine della partita scoppiò in un pianto liberatorio. Lui, leader silenzioso che mai andava sopra le righe, pianse come un bambino, in piedi, nel cerchio di centrocampo. Arrigo Sacchi lo abbracciò forte e a lungo come si abbraccia un figlio, sotto lo sguardo fiero e senza lacrime di Gigi Riva e degli altri dirigenti azzurri. Roberto Baggio, il buddista, non pianse. Non platealmente almeno. Fu rincuorato e accompagnato fuori dal campo da «Rombo di Tuono» che non tradì nessuna emozione. Anche in quel caso i vincitori non infierirono sui perdenti. Anzi il loro primo gesto, ancora prima di esultare per una vittoria importantissima, fu quello di innalzare uno striscione alla memoria di Ayrton Senna, morto qualche mese prima di quella finale in seguito a un tragico incidente nel Gran premio di San Marino. Da un lato dunque gli azzurri a testa china, molti dei quali in lacrime, dall’altro i calciatori del Brasile con le braccia al cielo a salutare il campione prematuramente scomparso.
Tornando ancora indietro con la memoria, al mondiale più bello vinto dall’Italia, i ricordi diventano, finalmente, soltanto gioiosi.
È l’11 luglio del 1982 una data storica per tutti gli italiani che amano il calcio. L’Italia ha battuto la Germania al “Santiago Bernabeu” di Madrid ed è diventata la squadra campione del mondo. Anzi citando rigorosamente Nando Martellini, il telecronista di quella storica partita, siamo «Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo».
La gioia in campo è incontenibile. Tutta la comitiva azzurra si stringe attorno a Enzo Bearzot, «il vecio» che, contro il pronostico di tutti ha portato l’Italia a conquistare il suo terzo mondiale.
Gli azzurri sono felici ed esprimono tutta loro gioia in campo senza “prendersi cura” dei loro avversari che sono stati sconfitti per 3-1. Era un mondo diverso, popolato da gente dura e che sapeva soffrire. Sapeva gioire, e sapeva soffrire, sempre con dignità, rispetto ed educazione.
Anche i tifosi pur trasformando l’Italia in un unico e interminabile carosello di colori, musica e cori non superarono mai il buon gusto. Anzi l’ironia nei confronti dei tedeschi che affollavano le spiagge italiane resta uno dei ricordi più belli e indelebili di quei giorni.
Vidi la partita a Peschici, sul Gargano, a casa di parenti di mio padre. Peschici da giugno fino a luglio è popolata da molti tedeschi, anzi la maggior parte dei turisti proviene proprio dalla Germania. Quel giorno dunque fu un giorno molto particolare. Fin dalla mattina ci furono cori e sfottò per le vie del paese. Tantissime le scommesse bizzarre, in un clima di totale cordialità e divertimento. Noi guardammo la partita a casa, ma al triplice fischio finale eravamo già, tutti, in piazza. Fu una notte lunghissima. Il funerale che fu celebrato alla Germania, con tanto di bara vera, e che attraversò tutto il paese, resta uno dei momenti più divertenti della mia esistenza. C’era una banda improvvisata che precedeva la bara e molti tifosi teutonici furono “costretti” a seguire il feretro. Ai lati delle strade invece, c’eravamo noi, gli italiani. E a ogni passaggio della bara, insieme ai cori per l’Italia, c’erano anche gli sfottò per i tedeschi. Non ci fu nessun incidente, tutto avvenne all’insegna del vero e puro divertimento. Era un’altra Italia, ed era, anche, un altro mondo con più fiducia nel futuro e dunque con più voglia di divertirsi. Qualche anno più tardi Paolo Conte canterà «un quinto personaggio esitò prima di sternutire, poi si rifugiò nel nulla… era un mondo adulto,
si sbagliava da professionisti…». Un mondo adulto appunto, un mondo in cui ci si poteva divertire insieme, vincitori e vinti.
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