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La compromissione, Mario Pomilio

La compromisisone_La città_05 marzo 2015

Questo articolo è pubblicato anche sul quotidiano La città.

La prima cosa da scrivere su La compromissione di Mario Pomilio è che andrebbe ripubblicato. Per poterlo leggere sono andato in biblioteca e solo lì ho trovato una copia del libro. Copertina cartonata rosso bordeaux. Vallecchi editore, prima edizione maggio 1965, seconda edizione settembre 1965. Lire 2.000. Con quest’opera Mario Pomilio vinse il Premio Campiello nel 1965, cinquant’anni fa.
Il prestito dura un mese, ma io l’ho letto durante un viaggio a Roma, in autobus, e credo sia stata una scelta giusta perché la lettura, inconsapevolmente, ha seguito e assecondato il mio viaggiare.


Alla partenza Marco Berardi, il protagonista del libro di Pomilio, parlava di Teramo e del suo travaglio interiore, politico e umano, man mano che mi avvicinavo a Roma irrompeva la politica. Quella dei grandi partiti politici che hanno animato il dopoguerra e che hanno contribuito, in maniera determinante, a ricostruire il nostro Paese dalle macerie, materiali e immateriali, che Hitler e Mussolini avevano lasciato in eredità. Allo stesso modo nel viaggio di ritorno, quasi che Berardi seguisse i miei spostamenti, nei pressi di Roma l’epilogo della vicenda politica, man mano che mi avvicinavo alla provincia abruzzese, l’evolversi della situazione personale.
«Ma per me, per i giovani come me, per quelli che nel ’45 avevano tra i venti e i trent’anni, occuparsi di politica non era solo una questione d’ideali, ma quasi la conseguenza d’una visione del mondo, una maniera, l’unica allora possibile, d’entrare in contatto con la realtà e farsi uomini».
La politica come maestra di vita, addirittura unico modo di farsi uomini. La politica prima e al di sopra di tutto.
«Iscrivermi al PSI anziché al PCI, una specie di compromesso, la mia riserva mentale, un tentativo di conservare intatta la mia impalcatura di liberale illuminato indifferente ai sistemi, ma disposto ad accettare il marxismo come uno strumento provvisorio di lotta contro l’inerzia e il conformismo della società alla quale appartiene».
Sin dalle prime pagine Pomilio fissa gli elementi cardine della narrazione: la centralità della politica e la provincia italiana. All’interno di questo campo avvengono i fatti che hanno come protagonista Marco Berardi, professore di liceo a Teramo, Amelia, la sua fidanzata, e la vita che si svolge nella cittadina abruzzese alla fine della seconda guerra mondiale.
«Essere comunisti era un modo d’essere, essere socialisti, una maniera di sentire; essere socialisti, un libero atto di coscienza, esser comunisti, una chiamata della storia; essere socialisti, adoperarsi per l’avvento di una nuova società, esser comunisti fare gli uomini capaci di viverci».
Un modo di pensare e di stare al mondo che attraversava l’intera società e tutti gli strati sociali, anche se, finita la guerra e la Resistenza, sconfitto il nemico comune, il nazismo e il fascismo, emergevano in modo sempre più chiaro e netto le differenze tra i soggetti politici e dunque tra le persone che animavano la vita e la lotta politica di quegli anni.
«I socialisti di Teramo erano un gruppo di piccoli borghesi che incontrandomi per strada si toglievano il cappello. Per loro prima di essere il compagno Berardi, restavo innanzitutto il professor Berardi, del liceo».
La narrazione ha il dono della leggerezza, soprattutto riesce a comprendere in un unico quadro la vita e il travaglio di un uomo, che cerca con tenacia la sua giusta collocazione nel nuovo mondo che si sta costruendo, e insieme descrive la provincia italiana che, messa in ginocchio dalla guerra, ri-costruisce la sua dimensione pubblica e collettiva non senza incontrare resistenze. Teramo è qui contemporaneamente la cittadina d’Abruzzo che conosciamo, ma rappresenta, in senso più generale, tutta la provincia italiana. Così come Marco Berardi racchiude in se generazioni di uomini e donne che hanno costruito con la politica e sulla politica le proprie esistenze.
«Dall’alto del balcone si poteva vedere la gente, la gente per bene – i mezzi borghesi, i piccoli borghesi, le coppie di fidanzati, i gruppi di ragazze spigliate per farsi notare – sboccare dal corso sulla piazza, darci un’occhiata, tornare indietro».
Lo sguardo di Mario Pomilio è uno sguardo attento e scrupoloso che fotografa e restituisce con dovizia di particolari la società che sta mutando. Una quotidianità che da cronaca si trasforma in storia nello stesso istante in cui è ritratta e restituita sulla carta. Una quotidianità che diviene letteratura e che dalla letteratura trae ispirazione. Come non ricordare infatti il profilo della società mafiosa siciliana che Leonardo Sciascia traccia ne “Il giorno della civetta” nel 1961, solo qualche anno prima della pubblicazione de “La compromissione”. Gli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi siciliani di Sciascia sono qui la gente, la gente per bene, i mezzi borghesi, i piccoli borghesi che animano e popolano la società teramana. L’italiano che utilizza Pomilio, fatta eccezione per qualche «pel» oggi non più in uso, è una lingua viva, musicale e bella da leggere anche oggi. Una prosa semplice ed efficace, in questo senso, autenticamente, popolare e che esprime un perfetto equilibrio narrativo tra dialoghi e descrizioni.
«S’era iscritta al PCI per sfuggire alla solitudine, ne aveva però ricavato una nuova forma d’isolamento, una sorta di tristezza angolosa, che si portava addosso come un abito».
E se abbandoniamo l’aspetto letterario e ci concentriamo esclusivamente sul contenuto del romanzo ci accorgiamo che i temi e le riflessioni che propone sono senza tempo, più che autenticamente contemporanee. Chiunque abbia svolto attività politica può riconoscersi nei tormenti di Marco Berardi. Chiunque abbia svolto attività politica ri-conosce quelle lunghe e, spesso, inutili riunioni che sembrano essere sempre le più importanti del mondo, così come non può riconoscere nelle parole dell’avvocato democristiano De Ritis, suocero in pectore del Berardi, i mestieranti e i gattopardi della politica che anche oggi popolano il nostro Paese.
E quando Berardi firma il manifesto per la pace degli indipendenti di sinistra, «Firmai tuttavia con una specie di sollievo, il segreto sollievo morale che si prova a schierarsi a sinistra», Pomilio riesce a fissare sulla carta uno stato d’animo in cui si potranno riconoscere tutti coloro a cui continua a battere il cuore per la sinistra.
Ma il vero capolavoro d’introspezione psicologia lo compie quando descrive lo stato d’animo di Berardi giunto al capolinea della sua militanza politica.
«Si trattasse solo di questo! Sbaglio più, sbaglio meno, uno fa presto a metterli in conto della vita. Ma quando uno da un’esperienza esce come succhiato dentro? Quando uno deve riscuotersi dagli anni migliori della sua esistenza e domandarsi all’improvviso: e adesso dove vado, dove sbatto la testa, a che cosa credo più? E c’è intorno a me, nel mondo storico che mi circonda, un ideale, uno qualsiasi, nel quale io possa riconoscermi, una verità che merita ancora che io ci spenda la coscienza? In buona fede questo è il fatto, in buona fede, voglio dire: perché certo in malafede si possono fare tante cose. Vedi, francamente, se fossimo chiamati a votare domani, di sicuro io lascerei in bianco la mia scheda».
Un romanzo che a cinquant’anni esatti dalla sua pubblicazione mantiene intatto il suo valore storico e accresce la sua valenza letteraria è la nota che appunto sulla mia moleskine quando l’autobus si ferma al capolinea della stazione centrale. Il mio viaggio termina qui, quello de La compromissione no, potete esserne sicuri.

La compromissione, Mario Pomilio (1965, Vallecchi editore, 300 pagine. 2.000 lire)

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