Non fosse Wim Wenders scriverebbero tutti che Ritorno alla vita è un gran bel film, con una fotografia superba. Di più, scriverebbero che la pittura di Edward Hopper diventa film in una trasposizione che è insieme omaggio e citazione. In realtà è come se Wenders togliesse ai quadri di Hopper il sole e i colori e li sostituisse con l’oscurità, demandando alla figura umana e ai luoghi scelti per le inquadrature il ricordo di quell’arte. Un’operazione che vale solo per gli interni e che gli serve anche per assecondare il lungo e doloroso calvario che attraversa la vita di alcuni dei protagonisti. Una sorta di espiazione della pena che si accompagna alla presenza della penombra, a volte dell’oscurità.
Resta intatto il potere persuasivo e curativo della parola. Così come resta, inalterata, la fissità dei movimenti e il lavoro sugli attori per renderli il più possibile integrati ed aderenti con i paesaggi immaginati. Ancora una volta più un baluginìo che luce forte e diretta.
Non è il Wim Wenders de Il cielo sopra Berlino o de Fino alla fine del mondo. Non è nemmeno il Wim Wenders di Pina Bausch e de Il sale della terra. Così come non è il Wim Wenders di Lisbon Story o di Buena Vista Social Club.
È un Wim Wenders che cambia mantenendo inalterata la sua cifra stilistica. Come se il regista avesse compreso fino in fondo che non deve dimostrare più niente a nessuno e che la sperimentazione, costante di tutta la sua carriera artistica, non è più l’archè di tutte le cose. Il ritorno di Wim Wenders può essere un nuovo inizio che mette la persona umana al centro del suo universo e che promette bene. Molto bene.
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