Questo articolo è pubblicato anche su L’Attacco
Una corrispondenza di amorosi sensi, questo è Zdenek Zeman per chiunque ami il gioco del calcio. Perché ha avuto la capacità, rara, di entrare in connessione con le persone senza aver bisogno di professare alcunché, ovvero semplicemente svelando il suo modo di intendere il calcio attraverso il gioco delle sue squadre. Come Maradona e Roberto Baggio.
Questa sua attitudine, questo modo di essere e di offrirsi al pubblico è l’aspetto più significativo dell’autobiografia, Zdenek Zeman. La bellezza non ha prezzo, scritta con il giornalista Andrea Di Caro.
«Mi misero nome Zdenek, che è l’equivalente del latino Sidonius, e proviene dalla radice zidati (costruire, creare). Il destino nel nome, perché ho sempre cercato di costruire e creare qualcosa che lasciasse il segno, regalasse emozioni, desse soddisfazioni».
Ed è proprio il costruire, gioco e calciatori, la caratteristica più importante dello Zeman allenatore.
Costruire, creare gioco in funzione del gol. E se pensiamo al calcio di oggi, al calcio che ci sta offrendo il mondiale in Qatar, per esempio, comprendiamo meglio questo assunto. Quasi tutte le squadre, pur cercando con la costruzione dal basso una logica di gioco fondata sul possesso palla finalizzato alla ricerca del gol, hanno difficoltà negli ultimi trenta metri di campo. L’esempio più eclatante è stato quello della nazionale spagnola che pur avendo una ottima squadra ha avuto difficoltà nel finalizzare l’azione.
Le squadre di Zeman no. Costruiscono sempre e solo gioco in funzione del gol e in tutte le occasioni che ha avuto di allenare, dal Licata alla Roma, passando per Foggia, Lazio e le tante altre squadre che gli hanno consentito di superare quota 1.000 in panchina ha portato spesso la sua squadra ad avere il miglior attacco della competizione.
«Se dovessi scegliere un’istantanea simbolo del mio amore per il pallone è questa: io, in calzoncini corti, e mio nonno seduti dietro una porta di calcio».
Accade perché Zeman è un uomo di sport, un uomo che ama il calcio a qualunque livello lo si giochi.
In Zeman si possono riconoscere tutti coloro che si fermano per strada ogni qual volta vedono qualcuno giocare a pallone, come dice lui. Si giocare a pallone, non giocare al calcio, proprio come parlano le persone comuni, il popolo direbbe il più grande di tutti, Diego Armando.
«Lo Zaccheria era la nostra casa: non solo ci giocavamo le partite ma ci allenavamo lì anche durante la settimana, quando il tempo era bello. Quando pioveva invece andavamo al campetto della vicina parrocchia di San Ciro, a circa duecento metri dallo stadio […] arrivati davanti alla recinzione, invece di fare tutto il giro, scavalcavamo il muretto. Come si fa da ragazzini, come facevo io da piccolo a Praga per arrivare al campo di pallamano ghiacciato dove andavo a pattinare. In quel campetto 40 metri per 60 abbiamo coltivato i nostri sogni, rendendoli realtà […] In quel campetto, con il prete che si affacciava a vedere gli allenamenti e i ragazzini che aspettavano l’autografo, io ho vissuto l’essenza del calcio».
A Foggia nasce Zemanlandia e quella squadra fa innamorare tutta l’Italia calcistica. Allo Zaccheria arrivano da tutta la Puglia per assistere alle partite dei diavoli rossoneri. Lo stadio è sempre sold out.
In quegli anni, come dice lui stesso, ha vissuto l’essenza del calcio. Un calcio fatto di corsa abbinata alla qualità. Palla a terra alla ricerca del gol, con gli attaccanti, i centrocampisti, i terzini.
Una baraonda in campo che rispondeva a dettami tattici precisi, provati e riprovati in allenamento. Nulla era lasciato al caso. I movimenti delle famose catene di destra e di sinistra avevano meccanismi perfetti. Durante la settimana era capace di ripetere quegli schemi, senza avversari contro, infinite volte. Fino a quando tutti i movimenti erano perfetti. Lui, fisso e immobile in mezzo al campo con il fischietto in bocca a dare il via ad ogni ripartenza. Sempre così, per ore e ore.
Tattica e tecnica a volontà, ma anche allenamenti per rendere il fisico dei suoi calciatori resistenti alla fatica e nello stesso tempo duro lavoro anche sull’agilità e la velocità di esecuzione. Attenzione alla dieta e tutte le settimane sulla bilancia per monitorare il peso dei suoi ragazzi.
Storie di squadre e di calciatori, di città. Palermo, Licata, Foggia, Parma, Messina ancora Foggia, Roma e tante altre ancora. Storie che abbiamo seguito in tutti questi anni di carriera e in cui ha regalato bellezza a tutto il calcio italiano, come sottolinea più volte in questa autobiografia.
«Ho sempre inseguito la bellezza nelle varie forme che la vita può offrire: si tratti di famiglia, amore, amicizie, sport, lavoro, esperienze umane e professionali, comportamenti, azioni, scelte, battaglie, ideali e valori […] Rifarei tutto. Si può essere vincenti senza trofei in bacheca, ma per aver migliorato i propri giocatori. E il grazie della gente per me vale più di cento scudetti […] L’ho cercata e inseguita sempre, in ogni momento della mia vita. Mi domando spesso se l’ho raggiunta e se sono riuscito a trasferirla a chi mi ha seguito, ha creduto in me e tifato per le mie squadre, riconoscendosi in certi valori».
Ma questo libro parla soprattutto dell’uomo, di Zden?k, il muto o Sdengo se preferite. Ed è proprio su questo aspetto, il lato umano di Zeman, che il lavoro Di Caro è stato più proficuo.
In particolare, mi soffermo su due ricordi che il boemo ha voluto condividere con tutti. Il primo riguarda Pasquale Casillo, il presidente di Zemanlandia, che con lui e Peppino Pavone costruì una squadra, semplicemente, irripetibile.
«Mi fermai in un bar proprio di fronte all’uscita, mi sedetti al tavolino, ordinai un caffè, poi un altro. E fumai non mi ricordo quante sigarette, mentre aspettavo. Faceva caldo, il sole picchiava forte. Poi finalmente dalle porte del carcere di Poggioreale uscì lui, Casillo […] Ci abbracciammo e poi andammo a mangiare il pesce fresco, come facevamo spesso […] Non ho mai creduto nemmeno per un momento, alle false accuse mosse contro Casillo. E che furono false non l’ho stabilito io, ma un giudice del tribunale di Nola che lo scagionò con formula piena per non aver commesso il fatto. Ma questo avvenne solamente nel 2007, tredici anni dopo l’onta della galera […] Al momento dell’arresto aveva solo quarantasei anni, fatturava quasi tremila miliardi di lire all’anno e dava da lavorare a migliaia di persone […] Mi ha fatto ricco, mentre lui già lo era […] Entrava raggiante negli spogliatoi a fine partita: “Che partita Sdengo, che partita… ma tu mi vuoi far prendere un infarto… mannaggia a chi t’é mmuort…” […] È grazie a lui è alla sua parlata napoletana che sono diventato Sdengo, perché nessuno prima mi aveva chiamato così […] Ci siamo voluti molto bene».
La restituzione di questo ricordo è come un film di Sergio Leone: epica.
Il sole che picchia forte, il fumo delle sigarette e l’attesa. Un’attesa che racconta moltissimo di Zdenek. Un’attesa che è affetto, gratitudine e riconoscenza. Un’attesa che è bello che ci sia stata e che, soprattutto, è bello che ci sia stata raccontata.
Il secondo riguarda Franco Mancini, morto in un pomeriggio di marzo del 2012. Aveva quarantaquattro anni ed era il preparatore dei portieri delle squadre di Zeman. É morto a casa sua dopo aver diretto il suo ultimo allenamento. La prima volta s’incontrarono nel 1986 e da allora non si erano mai persi di vista. Otto anni insieme a Foggia, poi Lazio e Napoli. Poi ancora Foggia e poi Pescara. Quando nasce Zemanlandia Franco Mancini è già il portiere del Foggia, non era ancora l’Higuita dei Sassi, ma lo diventerà molto presto.
«Franco Mancini per me è stato un altro figlio […] aveva giocato buona parte della sua carriera con me […] Non sono abituato a piangere e a commuovermi su un campo di calcio, mi è successo solo due volte: alla fine di Sampdoria-Pescara, la gara che sancì la promozione in serie A, quando senza vergogna mi scesero le lacrime pensando a lui, e un’altra volta, sempre in panchina, perché sentivo la sua mancanza […] Penso spesso a lui, mi mancano i suoi occhi profondi, i suoi pensieri, la sua passione, quella sua ritrosa malinconia. Ciao ragazzo, ci incontreremo un giorno».
Parole non banali o casuali che restituiscono la vera dimensione dell’uomo e del professionista. Aver saputo tener insieme la vita vissuta e lo sport, le gioie e i dolori, gli ideali e i valori, fanno di questo libro un piccolo scrigno da custodire con cura. Da conservare e da regalare a chi non ha avuto la fortuna di conoscere Zden?k Zeman e il suo calcio.
Mi sarebbe piaciuto leggere più di calcio, di 4-3-3 e di allenamenti, ma la sua autobiografia non poteva che essere così, come il suo calcio, un po’ incompleto ma che ho amato sopra ogni altro calcio. Se fosse stato completo avrebbe vinto tanti trofei sul campo e invece la sua incompletezza e la sua imperfezione lo hanno fatto amare e desiderare di più, per questa ragione ha vinto nel cuore di ogni vero tifoso di calcio. Per questa ragione è amato dai tifosi della Roma e della Lazio, per la bellezza che è rimasta negli occhi di chi ha visto quel calcio. Per questa ragione nel regno di Zemanlandia (anche se lui sostiene «Ho amato la Roma forse più di ogni altro club…») non lo dimenticherà mai nessuno e un giorno lo stadio della città di Foggia si chiamerà con il suo nome: Zdenek Zeman.
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