Il ritmo incalzante della narrazione che fa da contraltare alla fissità della malattia prima e della morte poi è la chiave di lettura e uno dei pregi dell’esordio narrativo di Paolo Massari.
C’è ritmo e velocità di pensiero e di azione, un muoversi continuo per non restare fermi a pensare, come se la scrittura potesse eludere, spostare in avanti, la fine.
Da qui, da questo tentativo, discende anche il sarcasmo e la leggerezza della descrizione di brandelli di vita. C’è umorismo che si contrappone, quasi respinge, l’idea stessa della morte.
Poi man mano che attraversi le pagine e sei più avanti nel racconto ti accorgi, senza renderti conto esattamente di quando e come sia accaduto che Massari parla della vita e non della morte.
Quello di Giacomo, il coprotagonista della storia, è un dialogo con il padre di Anita e con Anita, sua moglie, e si parla di vita, di vita vissuta. Di parole non dette, di sentimenti non esternati. Di parenti, sorelle, madri, e poi ancora di colleghi di lavoro, abitudini. Ritratto di famiglie.
Questo riversare sulla pagina e dunque sul lettore il non detto di una lunga vita insieme è come mettere in chiaro tutti gli ingredienti per una vita letteraria da trascorre insieme.
Un romanzo che contiene elementi, spunti per sviluppi di nuove storie. Massari sembra voler stabilire un patto con i suoi lettori: in questo romanzo ci sono i prodomi dei miei romanzi che leggerai nei prossimi anni.
Una scrittura colta, attenta e precisa nei particolari, la scrittura di un lettore educato alla letteratura che conosce le regole del gioco e le mette, tutte, in campo. Come quelle descrizioni iniziali che sembrano essere anche superflue e che invece tornano, come richiami, lungo lo svolgersi degli accadimenti. Una tecnica che è propria di autori di lungo corso.
«Alla cena per la pensione di Alba D’Amato, la mia collega di matematica, siamo capitati accanto a una coppia molto elegante, i Di Parma. Lui è un vecchio preside, ha perso la mano destra in un incidente. La moglie lo aiuta a mangiare. Taglia tutto in piccoli pezzetti con una tale delicatezza, meglio di come abbia fatto io in questi mesi con tua figlia».
Per quanto riguarda il contenuto, sul senso di questo romanzo, un aspetto prevale su tutto e che possiamo assumere utilizzando ciò che è successo a Giacomo: quando amiamo una persona dobbiamo dirglielo. Con le parole, con la gentilezza. Contando fino a dieci prima di trattarla male. Giacomo, nella frenesia dei pensieri successivi alla morte di Anita, vorrebbe riavvolgere il nastro della loro vita insieme per correggere e migliorare tutto ciò che non è andato per il verso giusto e lo fa con una trasposizione temporale talmente ben riuscita che Anita, in realtà, ci sembra viva. Viva per tutta la durata del romanzo.
Tutto ciò è restituito, da un punto di vista della scrittura, con l’adozione di un ritmo frenetico, una sorta di bulimia con cui Giacomo affronta l’assenza fisica di Anita. Gli serve per colmare la fame di vita insieme che non può più esserci e ciò gli crea confusione, disorientamento.
«Mi sembra di non capirci più niente, come se non sapessi più mettere in fila gli eventi. A volte mi pare tutto già lontanissimo e invece fino a poche ore fa Anita era qui. Il suo corpo, in parte, funzionava ancora. Perciò ci ha messo tanto a morire, la settimana scorsa aveva ancora diversi valori nella norma […] Le poche parti ancora sane del suo corpo l’hanno fatta restare viva per settimane senza esserlo veramente. Era un po’ come guardare una casa dopo un terremoto, hai presente? Il tetto e i muri sono venuti giù, è crollato il pavimento, eppure, non si sa perché, c’è una parete ancora in piedi, intonacata di azzurro, con un paesaggio incorniciato rimasto saldamente appeso al chiodo. Così era Anita nei suoi ultimi giorni».
E nell’accettazione della morte che si avvicina ogni giorno di più, Giacomo ci regala momenti per riflettere sulla funzione maieutica della bugia. Manuale del vivere meglio o per vivere meglio accompagnandosi con la bugia detta a fin di bene.
Il paragrafo dedicato a zia Agnese, un racconto anche autonomo all’interno della narrazione, mi ha fatto ritornare alla mente un piccolo e prezioso libro di Antonio Tabucchi, Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa, tanto da indurmi a rileggerlo mentre leggevo la storia di Giacomo e Anita. Rileggendo ho realizzato che la memoria può giocare brutti scherzi, ma l’appalesarsi nel corso di una sola giornata, quello del funerale di Anita, di una serie di personaggi universali, che per esigenze narrative assumono le sembianze di parenti, mi ha richiamato alla mente gli eteronimi che erano «“altri da sé”, voci che parlavano in lui e che ebbero vita autonoma e una biografia».
La domanda che darei a Paolo Massari nel caso dovessi presentare il suo libro, la prima domanda che gli farei è la seguente: perché hai scelto di raccontare della morte nel tuo esordio letterario?
È catarsi? Questa la seconda.
Poi inizieremmo a dialogare e gli argomenti non mancherebbero a partire dalla chiarezza della scrittura che denota una grande consuetudine con la pagina di letteratura. Esordio più che positivo, adesso si tratta di capire e di seguire il percorso che conduce alla conferma prima e all’affermazione definitiva successivamente.
Paolo Massari, Tua figlia Anita, Nutrimenti, Roma 2023
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