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Diana Karenne, la protagonista dell’ultimo libro di Melania Mazzucco paradigma dell’emancipazione femminile

Questo articolo è pubblicato sul quotidiano Roma, il giornale di Napoli
* Qui è pubblicato in una versione più lunga che include alcune citazioni

In una ispirata, potente e volutamente politica, prolusione alla tredicesima edizione del Salerno Letteratura festival, Melania Mazzucco spiega le ragioni della letteratura, la sua forza di cambiamento, la capacità di accendere riflettori sulla realtà e fornire gli strumenti per comprenderla e, quindi, provare a cambiarla. Parla del potere che non ha colore, dei libri «dati alle fiamme dai nazisti nel rogo di Berlino il 10 maggio 1933», di quello stesso potere senza colore che vince quando le persone smettono di leggere e d’informarsi e che « rassegnarsi ad allevare una generazione senza libri significa cedere l’unico vero potere della letteraturala libertà».

Sono alcune delle questioni alla radice della scrittura di Melania Mazzucco e in particolare del suo ultimo libro, Silenzio. Le sette vite di Diana Karenne. Un viaggio che prende il via nel 1914 a Roma e si concluse nel 1968 a Losanna. Attraverso la sua lotta per l’affermazione personale, come donna e come artista, la protagonista incarna il desiderio di indipendenza che accomuna molti, e in modo particolare le donne. Diana Karenne, uno dei tanti nomi che la protagonista utilizzerà, è tante cose insieme, «straniera, misteriosa, femme fatale, zingara, cantante, imprenditrice cinematografica, spia, suora strappata al convento, santa, contessa, regina, zarina», prima donna e regista del cinema muto italiano, tra le prime registe cinematografiche del mondo.

«Non sono nata per essere la moglie di nessuno, gli risponde, fissando il fumo che si leva oltre i palazzi. Ho lottato anni per avere una vita mia, e non potrei più rinunciarci. Voglio essere me stessa […] Non mi sposerei per interesse. Ho fatto tante cose per interesse, e non me ne vergogno, perché nessuno può dire a chi non ha cosa è legittimo fare per migliorare la propria condizione […] Il mio lavoro sono io, e senza non esisto. In effetti non sono più Dina, né Dina-mite, e nemmeno Diana -nient’altro che Diana Karenne».

Ma questo libro è anche molto altro, molto di più. Ci sono i poveri, Kiev e la Russia, la rivoluzione e la lotta per libertà. In queste pagine emerge, in modo più evidente che altrove, il compito e il ruolo dell’intellettuale. Emerge la portata di cambiamento della letteratura e riecheggiano le parole dello scrittore cileno Roberto Bolaño, «La letteratura è pericolosa. Se è innocua, non è letteratura».

I poveri visti e descritti non come animali da circo, ma nella loro essenzialità che, come viene magistralmente esposta in questo libro, è, innanzitutto il ripudio della violenza. La scelta del rispetto della diversità, di genere e di condizione sociale. Poi c’è Kiev, allora russa, e l’aspirazione alla democrazia e alla libertà. E la guerra, le guerre. A tenere tutto insieme, lei, la principessa muta, Diana Karenne.

«I poveri, i poveri! Da quanto tempo non li frequenta, ma non li ha dimenticati, si commuove lei, scrutando i muri lebbrosi, neri di umidità, i cumuli di spazzatura ammucchiati qua  e là come la neve nelle città del Nord, i panni senza più forma o colore sulle corde, gli antri bui nei quali si accalcano decine di persone. Proprio come nei quartieri ebraici di Kiev. Come possono vivere così – subito alle spalle di via Toledo e del Rettifilo, estranei alla ricchezza smodata del bel mondo internazionale che si gode il sole nei grandi alberghi del nuovo rione Beltà, sul lungomare. Perché non si ribellano? Dovrebbero sgozzarmi, e invece mi sorridono».

Accanto a questi temi che riguardano l’umanità intera c’è la storia di tutti i giorni di Diana. I suoi amori, le amicizie, gli incontri fortuiti. Ed è proprio nella storia di tutti i giorni che conosciamo meglio e più in profondità la principessa muta e il suo regno. I suoi vizi, le virtù. Le tante passioni e il lasciarsi andare. Il narcisismo e il perenne nascondersi. Diana Karenne è errante più che infedele, come lei stessa preferisce definirsi. Cammina senza posa, ora in una direzione ora in un’altra, senza punti di riferimento perché è in perenne fuga da sé stessa, dagli uomini, dalla sua patria. È in fuga, seguita come un’ombra dalle prefetture italiane, dalla guerra che per la prima volta è mondiale, riguarda tutti e rende tutto precario.

Un’opera monumentale, costruita con lunghi anni di studio e una ricostruzione quasi filologica degli accadimenti. Un romanzo che racconta di una donna straordinaria che ha saputo trasformare l’ordinario e le difficoltà di chi ha vissuto due guerre mondiali nello straordinario.

Leggere Melania Mazzucco è un piacere. Espressione viva dei principi fondanti dello scrivere: musicalità del ritmo e ricchezza del lessico. In alcuni passi, il voluminoso romanzo è lieve come solo la poesia sa essere, ed è per certi versi, musicale. Non si può tacere questa abilità, non la si deve tacere. La scrittura è un dono? No, è esercizio. È figlia del talento? Anche, ma se non allenato, corretto, indirizzato, il talento rimane fine a sé stesso ed è inutile.

 

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