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Genova per noi…

Genova per noi è un’idea come un’altra, ratatatà, ratatatà, ratatatatà, canta Paolo Conte, e quando dall’autostrada, che scende giù fino al mare, si comincia a vedere Genova, mi torna sempre in mente questa canzone. Ratatatà, ratatatà, ratatatatà.
Uno splendido sole e un vento bello che arriva dal mare e sale su fino a via XX settembre è lo spettacolo che trovo al mio arrivo. Il tempo di lasciare la valigia in albergo e sono già nel sottoportico di Palazzo Ducale all’ingresso della mostra. Fabrizio De André, la mostra. Il sole è ancora lontano dal mare.

Cinque grandi arcate a formare uno spazio longitudinale invaso dalla musica e dalla voce di Fabrizio De André. Una serie di schermi che si lasciano attraversare dalle immagini, a destra per tutta la lunghezza della parete i testi delle canzoni proiettati sul muro e sulla sinistra, incastonati nel muro come reliquie, oggetti e foto del cantautore genovese. In fondo, a chiudere la serie degli schermi, il pianoforte di casa De André e una gigantografia che ritrae Fabrizio al piano.
Il nero ti avvolge come il blu e la musica. E poi quella voce che al buio e nel silenzio risuona come magica. Molte persone, nessuno parla, qualcuno canta. Ed è solo la prima stanza.
Quando arrivi alla fine del percorso t’imbatti in una giovanissima e strepitosa Enza Sampò che circuisce un Fabrizio De Andrè poco più che ragazzo. Ti si apre il cuore. Lo vedi, davanti a te, che suona, solo, con la chitarra e quattro fari che lo illuminano.
E mentre lo riascolto, seduto nelle ultime file della piccola sala video, mi accorgo che è sempre stato un classico, fin all’inizio della sua carriera.
Quella voce meravigliosa, capace di scandire le parole una a una e che le fa capire, comprendere. È attuale e contemporaneo non solo per i testi e per la musica ma anche per come è vestito e per la sua figura. E mentre comincio a scrivere sulla mia moleskine questi primi appunti, arrivano le note di “Amore che fuggi, da me tornerai”. Che riapre il cuore e ti da vita.
Enza Sampò adesso è seduta, spalle alla telecamera, tra tante sedie vuote e ascolta Fabrizio.
Non ha fretta De André. Non ha fretta di rispondere alle sue domande. Si lascia attraversare dal tempo e questo scorrere nuovo del tempo, quest’attesa, aiuta a riconciliarsi con il proprio tempo.
Riattraverso quegli spazi pieni di nero e di blu e di silenzio. D’improvviso si riode la voce di Fabrizio. Mai inopportuna, sempre complice.
Esco che è ormai giunta sera e fa un po’ freddo. Mentre cammino, con la musica e la voce di Fabrizio nella testa e le immagini e quel buio e quel blu che non mi abbandonano, quasi non mi accorgo che sto passando davanti alla chiesa di San Lorenzo. Un’architettura straordinaria con quei marmi in fasce bicrome, bianche e nere, che raccontano della potenza e della gloria di Genova.
Questa vista un po’ mi scuote e mi distoglie dal torpore, o forse saranno gli odori o ancora le variopinte ragazze cantate da De André a farmi ritornare in me.
E mentre penso a tutto ciò sono arrivato in via dei Giustiniani, nel posto dove cenerò.
Antica Sa Pesta, il nome della trattoria. Se siete a Genova questa è una tappa obbligata al pari della visita al nuovo porto di Renzo Piano piuttosto che al Carlo Felice di Aldo Rossi.
Mentre aspetto una delle ragazze per l’ordinazione, sposto le posate e comincio a leggere sulla tovaglietta di carta color senape.

Antica Sa Pésta, le origini
In genovese “Sa Pésta” significa sale pestato (fino) che un tempo si otteneva raffinandolo col pestello nel mortaio. Il sale era una delle maggiori fonti di guadagno dei genovesi e monopolio dell’antica Repubblica di Genova. Scaricato dalle navi veniva custodito in depositi speciali nel porto e poi venduto al pubblico in “spacci” detti “spatole”. L’antica “ Sa Pésta” originariamente era luogo di vendita di sale che da “grosso” veniva raffinato per comodità degli acquirenti. Nel medioevo il Comune di Genova decretò che fossero sottoposti a monopolio anche il pane e il vino; pertanto l’attività di “spaccio” della Sa Pésta” si estese ben presto alla vendita al minuto di tali generi di prima necessità e con breve passo anche ad una ristorazione di tipo rapido. Fu in tal modo che ebbe origine uno dei più antichi locali ove venivano cucinate torte di verdura ed altre specialità popolari. In particolare veniva preparata la “farinata”, che nel XV secolo in latino era detta “scrippilita” per il suo tipico scoppiettare nel “testo” (teglia di rame stagnato) durante la cottura al fuoco a legna. L’antica denominazione si estese anche al proprietario chiamato “O Sa Pésta”. Tutt’ora il locale è volutamente conservato nel suo aspetto tradizionale d’altri tempi.

E la torta di verdure, di cipolle e la farinata ti lasciano assaporare una Genova che ancora c’è e che vive lì, in quei vicoli. In quel suk italiano, in quella mescolanza di razze e di colori che è ancora oggi il centro storico di Genova.
Esco che è ancora più buio e fa anche più freddo. Torno in albergo. Mi aspetta “Mi sono perso a Genova” di Maurizio Maggiani. Un nuovo viaggio in questa città. Questa volta di parole. Di parole colorate.

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