Che strano ripensarci ora, quando tutto è già successo.
Avevo una convinzione: certi panorami possono uccidere. Nel senso che la loro bellezza elimina la necessità della presenza umana. A contemplarli, ci si sente inutili, con la voglia di sparire. Invece, fra le pinete che si affacciano sul mare la morte aveva assunto la sua parvenza più propria.
Quella di un corpo in decomposizione.
Andrea e Bruna, i padroni di casa, ci attendevano nella loro villa. Lorenzo e Roberta venivano dalla superstrada, che sbucava più in alto e ridiscendeva a tornanti attraverso gli alberi. Federico e Zosia, preferivano la litoranea, più trafficata ma solare e caratteristica, specie nella salita che si inerpicava fra le casupole del borgo abbarbicato sulle rocce. I pescatori le affittavano a villeggianti capaci di scambiare i disagi per semplicità. Dopodiché, il percorso tornava in piano, con quei chilometri tra la spiaggia libera e la ferrovia, fino alla zona residenziale nella pineta, dove avremmo trascorso il fine settimana.
Io facevo ancora un’altra strada. La più difficile. Perché non passava nello spazio, ma nel tempo.
Era il tentativo di riprodurre le condizioni della mia adolescenza. Una pratica che ormai applicavo a tutto, da sempre. O meglio da quella stessa adolescenza verso la quale non erano possibili svolte a U sull’asse della freccia temporale. L’unico modo per violare le leggi della fisica stava nel tornare indietro con la mente. Molto più che ricordare e basta. Protendersi nel passato con ogni risorsa interiore.
In questo caso, si trattava di riprendermi un amore sfuggito nelle maglie di quella rete che l’esistenza cala addosso a chiunque, impedendo le mosse alternative, quelle che potrebbero modificare tutto e realizzare le aspirazioni.
Certo, esisteva anche un tracciato, che seguivo. Lo stesso sul quale arrancavo molti anni prima, con una moto da cross di seconda mano. Era la provinciale ormai quasi dismessa che tagliava i centri interni del promontorio e finiva nella pineta, diramandosi nell’intrico dei viali asfaltati e in forte pendenza lungo i quali si allineavano le ville. Ognuna con la propria loggia o balconata sul versante costiero. La veduta rimaneva la stessa. Cambiavano soltanto l’altezza e l’angolazione.
La villa di Andrea e Bruna sorgeva alla metà esatta del ripido pendio. Alle spalle, costruzioni liberty degli anni trenta, dimenticate dagli eredi dei proprietari e troppo costose per il mercato immobiliare. Di sotto, qualche complesso a schiera, d’imitazione mediterranea, con gli intonaci a bucciati da rifare per l’erosione marina.
Parcheggiai il SUV noleggiato all’aeroporto di Fiumicino sotto l’ombra di un pino che sporgeva dal muro liberty più vicino.
Sul piazzale davanti all’ingresso della villa, l’entrata di Federico avvenne con uno stridore delle gomme del suo coupé, che divelsero il pietrisco del fondo stradale più logoro e scatenarono una tempesta di polvere su piccola scala.
– Con tanto spazio sul lungomare – si lamentò con i piedi a terra. – Dovevano costruirsi la villa in cima al mondo.
– I panorami bisogna conquistarseli – fu il mio saluto.
Zosia scese dopo essersi data un’occhiata allo specchietto incorporato nell’aletta parasole.
Erano spaiati. Di più. Stonavano nella stessa macchina, nello stesso piazzale e nella stessa vita.
Lui basso e tarchiato, calvo, con i resti di una gioventù da calciatore di promozione nei polpacci robusti che gli spuntavano dai pantaloni corti. Lei alta e un po’ trascendentale con quei capelli biondo cenere cortissimi.
– Ciao, Sergio – mi salutò Zosia. Il suo accento polacco sembrava coltivato accuratamente per resistere all’italiano.
Spaiati, sì.
Ma il più spaiato ero io.
L’auto di Lorenzo e Roberta guadagnò lo slargo senza melodrammi. E anche loro, scendendo, diedero un’impressione di sobrietà che era l’opposto di quella offerta da Federico e Zosia.
Lorenzo conservava la sua solida snellezza da primatista dei cento metri ai tornei d’istituto nella linea regolare e decisa del tronco. Roberta, un fulgore corvino di sinuosità e morbidezza, era tutta nel suo sorriso per nulla appannato.
Andrea e Bruna, che vennero ad accoglierci fuori dal cancello, rappresentavano la via di mezzo fra la disparità grossolana di Federico e Zosia e l’equibrio riposante di Lorenzo e Roberta.
La loro era una coppia che intrigava.
Andrea, un po’ tendente alla pinguedine da scarsità di esercizio, sovrastava Bruna, minuta ma non fragile. Le passava spesso un braccio intorno al collo. Non solo se io fissavo gli occhi su di lei un istante in più del dovuto. Anche se Federico smetteva di sorreggere Zosia per la schiena e scendeva con le pupille sui fianchi di Bruna.
Io ero il meno guardato di tutti.
Però non si parlava che di me.
Di me che facevo il diplomatico. Di me che volavo nei posti che gli altri vedevano in televisione. Di me che si sapeva cosa dovevo diventare.
Avevo rinunciato definitivamente a spiegare che non facevo il diplomatico, bensì l’analista politico. Che nei posti dove capitavo, la peggiore difficoltà sorgeva sempre dalla ressa di turisti in cerca di avventura. Che non avevo mai saputo cosa dovevo diventare. Tanto meno ora che c’ero riuscito.
– Quando le persone che passano il tempo a girare il mondo trovano un fine settimana per dedicarsi agli amici, è festa solenne – decretò Roberta.
Per gli altri, suonò da invito a entrare nella villa.
Era mezzogiorno. Sulla balconata erano già pronti gli aperitivi. Insieme ai discorsi con i quali si vorrebbe riempire il vuoto che si apre da un momento all’altro fra persone incapaci di parlare perché non hanno pensieri da condividere.
Funzionava benissimo.
Peccato che fra noi fosse il contrario.
Quei discorsi servivano a coprire i troppi pensieri che avevamo da condividere e che, prigionieri nelle nostre teste, brulicavano urtando contro le pareti interne delle scatole craniche. Uccelli prigionieri che sbattevano le ali e uscirono allo scoperto il mattino dopo.
Erano le frotte di gabbiani che beccavano il cadavere di Zosia, ai piedi della pineta, nel punto in cui gli alberi finivano sulla spiaggia.
Per lei, si concludevano tutte le possibili settimane.
(1. Continua.)
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