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Habemus Papam

Habemus Papam è il film più bello di Nanni Moretti e lo è per tante ragioni.
Lo è innanzitutto perché in questo film ci sono almeno quattro passaggi da regista di vaglia. E soprattutto perché c’è poesia.

Nei film precedenti, se si esclude Il Caimano, Moretti ha sempre cercato, attraverso i suoi personaggi risposte alle domande che l’uomo contemporaneo si pone, domande che attraversano l’intera vita di ognuno di noi. Questioni sociali e politiche, personali e collettive. Domande che cambiano con il cambiare delle condizioni al contorno e con la crescita personale dell’autore stesso. Una sola invariante i dubbi esistenziali dell’uomo, presenti da sempre nel cinema di Nanni Moretti. Dubbi che, come Wim Wenders in Il cielo sopra Berlino, il regista rende evidenti quando i pensieri e le domande dei vescovi in conclave, seppur muti e silenti, squarciano il silenzio della Cappella Sistina. «Non scegliere me, non scegliere me» è la frase che tutti si ripetono più volte tenendosi la testa tra le mani o fingendo di prendere appunti.
Il papa di Nanni Moretti ha la forza di guardare alla sua fragilità umana. D’interrogarla, di cercarla, di andarle incontro come accade in una delle scene più struggenti del film quando percorre in autobus, di notte, il lungotevere. È un uomo che cerca di ri-trovare se stesso cominciando a frequentare una quotidianità che la vita in Vaticano gli ha precluso. In questa ricerca tenace della sua essenza più intima e di una possibile verità, risiede la sua grande forza. Quella stessa forza che dimostrò nel 1294 Pietro da Morrone, che divenne papa con il nome di Celestino V, quando dopo soli quattro mesi si dimise dal trono pontificio. Non si può non pensare a Celestino V guardando questo film così come non si può non pensare che questo lavoro sia un omaggio all’uomo che ingiustamente Dante definisce «colui che fece per viltade il gran rifiuto».
Quando poi le note di Mercedes Sosa, Todo cambia, inondano le stanze vaticane siamo in uno dei momenti di poesia. I vescovi tutti, dal più giovane al più anziano, accennano a piccoli passi di danza: siamo nel grande cinema. «Cambia lo superficial, cambia también lo profundo, cambia el modo de pensar, cambia todo en este mundo», tutto cambia canta Mercedes Sosa. Sempre su queste note, mentre i vescovi all’interno del Vaticano si concedono una piccola divagazione, Michel Piccoli, nei panni del papa morettiano, mescolato alla folla dei fedeli, si aggira nei pressi di piazza San Pietro per riappropriarsi del proprio destino. Il vento del cambiamento soffia anche in Vaticano. Soffia e gonfia la tenda color rosso carminio che cinge il balcone dal quale si dovrà affacciare il nuovo papa. L’attesa è lunga. Sarà lunga.
Un film, Habemus Papam, che per il regista romano amatissimo in Francia, è insieme un punto di arrivo e un punto di ripartenza. Di arrivo perché conclude un lungo e fortunato ciclo iniziato nel 1976 con Io sono un autarchico che lo ha visto protagonista acclamato, assoluto e unico, di almeno due generazioni d’italiani che si sono riconosciute nei suoi personaggi e che hanno utilizzato le migliori battute per spiegare a se stessi e agli altri ciò che ci stava accadendo.
Di ripartenza perché quest’ultimo lavoro è certamente un film maturo che porta a compimento un percorso. Il tempo della denuncia e della visione del presente è ormai alle nostre spalle. È di nuovo il tempo di guardare avanti e di fare progetti per il futuro. Per ripartire e cominciare una nuova narrazione.

 

 

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