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L’8 luglio del 2014 fino alle 17.00, ora locale, lo stadio di Belo Horizonte si chiamava Mineirao. Dopo appena novanta minuti, quando in Italia era quasi mezzanotte, il suo nome è diventato Mineiraço. Non è stata la penna di un giornalista a decidere il cambio di nome, è stata la storia del calcio che ha deciso per tutti.
Il 16 luglio del 1950 fino alle 15.00, ora locale, lo stadio più importante di Rio de Janeiro si chiamava Maracanã. Uno stadio maestoso, il più grande al mondo con una capienza ufficiale di 160.000 spettatori. Quel giorno invece, il giorno della finale del campionato del mondo del 1950, pare ce ne fossero non meno di 200.000. Si gioca Brasile-Uruguay, la partita che decreterà la nascita ufficiale del mito del gioco del calcio.
A Belo Horizonte, a distanza di sessantaquattro anni e con due ore di ritardo, si gioca invece Brasile-Inghilterra, semifinale del campionato del mondo 2014.
Il Brasile del 1950 è una squadra fortissima, ha vinto le due partite del girone unico per arrivare in finale, ha segnato tredici gol e ne ha subiti solo due. Può contare sul pareggio e la vittoria, mentre l’Uruguay ha invece una sola possibilità, deve vincere.
Il Brasile del 2014 non è fortissimo, è giunto alla semifinale del campionato del mondo superando per 2-1 la Colombia, ma in quella partita ha perso il suo miglior calciatore, Neymar Jr, uscito in barella per un intervento falloso, quando mancavano pochi minuti alla fine della gara. Nella semifinale contro la Germania mancherà anche il capitano della squadra, Thiago Silva, squalificato.
Il Brasile che affronta l’Uruguay nel 1950 schiera Barbosa, Friaça, Bigode, Chico, Ademir, Jair, Bauer, Augusto, Zizinho, Juvenal e Danilo. Per tutti la partita sarà solo una formalità, la sorte dell’Uruguay sembra già decisa. La conferma la offre il capitano di quella squadra, Obdulio Varela che, qualche anno dopo, racconta a Osvaldo Soriano ciò che successe realmente quel giorno. «La nostra responsabilità era minore. Ricordo che un dirigente uruguayano ha chiamato Oscar Omar Míguez, il centravanti della nostra squadra, poco prima che uscissimo dal campo, e gli ha detto che stessimo tranquilli, che i dirigenti si sarebbero accontentati di vederci perdere per quattro gol di scarto». L’Uruguay che affrontò quel Brasile schierava Maspoli, M.Gonzáles, Tejera, Gambetta, Varela, Andrade, Ghiggia, Peréz, Miguez, Schiaffino, Morán.
L’8 luglio del 2014, alle 22.00, ora italiana, scendono in campo a Belo Horizonte, Brasile e Germania. Il Brasile gioca con la ormai canonica divisa gialla, mentre la Germania sfoggia una maglia rosso nera a bande orizzontali. Il Brasile schiera Julio Cesar in porta, Maicon, Dante, David Luiz e Marcelo in difesa, Luiz Gustavo e Fernandinho tra la linea dei difensori e quella dei centrocampisti che sono Bernard, Oscar e Hulk, Fred è la punta più avanzata dello scacchiere pensato da Scolari.
Obdulio Varela è il capitano dell’Uruguay del 1950, non è il più forte dei suoi ma sarà l’uomo determinate per la vittoria che cambiò la percezione del gioco del calcio nel mondo intero.
«Io avevo trentatré anni e molte partite internazionali alle spalle. Erano cretini se credevano che ci avrebbero fatti fuori senza difficoltà […] Prima di andare in campo il direttore tecnico Juan López mi ha detto, come sempre, che io dovevo fare il regista, guidare la squadra. Allora, mentre passavamo per il tunnel, ho detto ai ragazzi: -Uscite tranquilli. Non guardate in alto. Non guardate mai le tribune; la partita si gioca qui sotto». Infonde tranquillità ai suoi compagni, non perde la bussola anche se la bolgia del Maracanã è assordante e toglie il respiro.
La Germania che il tecnico Loew manda in campo a Belo Horizonte è una squadra giovane e forte, forse, la più forte del campionato. Neuer in porta, Lahm, Hummels, Boateng e Howedes sono i difensori, Khedira, Schweinsteiger e Kroos i tre di centrocampo, Mueller, Klose e Ozil giostrano dalla metà campo in su. La Germania spinge sull’acceleratore e in diciotto minuti, dall’11 al 29 del primo tempo, realizza cinque gol. Brasile 0, Germania 5.
I calciatori del Brasile non reagiscono, sono come un pugile chiuso nell’angolo dall’avversario. Ad ogni gol vanno sempre più giù, sono come immobilizzati, inchiodati sulle zolle verdi del Mineirao. Nei loro occhi non c’è la tigre. Sugli spalti la situazione è anche più drammatica. Le telecamere si soffermano, impietose, sulle facce dei tifosi che piangono senza ritegno. Piangono tutti. Donne, uomini, bambini. Piangono anche gli anziani. Si sta vivendo uno psicodramma collettivo in diretta televisiva mondiale.
Nel 1950 il primo tempo tra Brasile e Uruguay terminò invece sul punteggio di 0-0, ma quando le squadre rientrarono in campo dopo due minuti Friaça portò in vantaggio i padroni di casa. Il Maracanã divenne incandescente e qui entra in scena, prepotente e decisivo, Obdulio Varela. Il capitano dell’Uruguay capisce che deve smorzare quell’entusiasmo. Comprende che i suoi compagni di squadra hanno bisogno di respirare, di riprendere fiato, per non essere travolti dalle giocate dei brasiliani che sono ormai lanciati verso la vittoria. E decide di sfidare i 200.000 tifosi presenti allo stadio. «E adesso le racconto una cosa che la gente non sa […] Allora invece di posare il pallone in mezzo al campo per ricominciare il gioco, ho chiamato l’arbitro e ho chiesto un interprete. Mentre arrivava, gli ho detto che c’era stato un off-side e via dicendo, ed era passato almeno un altro minuto. Cosa non mi urlavano i brasiliani! Erano furibondi. Dalle tribune fischiavano, un giocatore è venuto a sputarmi addosso, ma io, niente. Serio e tranquillo».
I calciatori brasiliani s’innervosiscono, quelli dell’Uruguay non capiscono. I tifosi sugli spalti insultano. Tutto il Brasile segue con il fiato sospeso gli accadimenti.
«Quando abbiamo ripreso a giocare, loro erano ciechi, non vedevano la loro porta tanto erano furibondi; è stato allora che noi tutti ci siamo accorti che potevamo vincere la partita […] Come ci siamo riusciti? Il fatto è che il giocatore dev’essere come l’artista: dominare la scena. O come il torero, dominare l’arena e il pubblico, altrimenti gli arriva addosso il toro. Si sa in campo fuori casa non ci saranno applausi, per quanto si giochi bene. Allora bisogna imporsi in un altro modo, dominare l’avversario, il pubblico, e anche i propri compagni».
Esattamente ciò che non hanno fatto Julio Cesar e i suoi compagni di squadra nella semifinale disputata l’8 di luglio al Mineirao. Non si sono fermati a riflettere ma sono ripartiti con più foga di prima. Erano ciechi, avrebbe detto Obdulio Varela, e non vedevano nemmeno la loro porta che, infatti, è stata violata cinque volte in diciotto minuti. Alla fine il risultato finale sarà di 7-1 per i tedeschi. E al triplice fischio finale a piangere sono proprio tutti. Il pubblico sugli spalti, i calciatori in campo, e i tantissimi tifosi che seguivano la partita dalle spiagge brasiliane in attesa di far partire la festa per la finale. Una festa che non ci sarà mai.
Nel 1950 dopo il triplice fischio finale che sancì la vittoria dell’Uruguay, per il Brasile del calcio cambiò tutto. A cominciare dalla divisa di gioco che era stata bianca fino a quel momento e che si decise di abbandonare per approdare, molti anni dopo, all’attuale tenuta verde oro. La nazionale non disputò partite ufficiali per due anni. Molti tifosi furono colpiti da infarto, dentro e fuori dallo stadio. Lo stadio Maracanã, inaugurato proprio in occasione di quei mondiali, da quel giorno si chiamò Maracanaço.
«Quella sera sono andato con il mio massaggiatore a fare un giro nei locali per berci qualche birra e siamo capitati in quello di un amico […] Il proprietario del bar si è avvicinato a noi insieme a quel tizio grande e grosso che piangeva. Gli ha detto: – Lo sa chi è questo qui? È Obdulio -. Io ho pensato che il tizio mi avrebbe ammazzato. Ma mi ha guardato, mi ha abbracciato e ha continuato a piangere. Subito dopo mi ha detto: – Obdulio, accetta di venire a bere un bicchiere con noi? Vogliamo dimenticare, capisce? – Come potevo dirgli di no! Abbiamo passato tutta la notte a sbevazzare da un bar all’altro. Io ho pensato: “Se devo morire questa notte, così sia”. Invece eccomi qui».
Obduilio Valera non morì quella notte per mano di un tifoso brasiliano, così come non sono morti ieri notte Lahm, Schweinsteiger o Klose. Certo i tifosi della squadra verde oro ricorderanno per sempre queste due, pesantissime, sconfitte. Ma sapranno rialzarsi come fecero nel 1950 e come faranno, ne sono certo, a cominciare da domani, quando il sole sorgerà di nuovo e nuovi talenti saranno pronti a correre e a stupire sui campi di calcio di tutto il mondo.
L’intervista a Obdulio Varela che avete letto in questo articolo è stata realizzata da Osvaldo Soriano ed è riportata nel bellissimo libro “Cuentos de Fùtbol”. Per me è stato un piacere scrivere accompagnato dalle parole di Soriano, lo considero un privilegio. Spero lo sia anche per voi.
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