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Il Nobel cinese che racconta la vita degli ultimi

Il Nobel 2012 per la Letteratura è stato assegnato a Mo Yan, pseudonimo di Guan Moye. Scrittore e sceneggiatore cinese è noto in Italia per “Sorgo rosso” il romanzo da cui è stato tratto l’omonimo film vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino nel 1998. In Italia, nel 2005, ha ricevuto il Premio Internazionale Nonino.

Ecco l’autobiografia che inviò alla giuria del premio. «Mo Yan nacque in una povera famiglia contadina a Gaomi nella provincia di Shandong Cina nel 1955. Nella sua fanciullezza soffrì la fame e il freddo. Quando scoppiò la Rivoluzione Culturale Mo Yan, studente del quinto anno della scuola elementare, divenne un pastore fu così costretto a una vita solitaria e a soffrire a lungo la fame. All’età di 18 anni iniziò a lavorare in una fabbrica nella quale si lavorava il cotone. Nel 1976 divenne un soldato nella Pla (Armata di Liberazione Popolare). Nel 1997 lasciò la Pla e da allora lavora per un giornale».

La motivazione con la quale l’Accademia reale svedese gli assegna il prestigioso premio è invece la seguente: «Per il suo realismo magico che mescola racconti popolari, storia e contemporaneità».
Mo Yan, si può tradurre con “non parlare”, non esprimersi, che è un ossimoro se questo è il nome diverso da quello reale usato da uno scrittore.
Anche quest’anno, come spesso accade quando si assegna un premio molto importante, com’è certamente il Nobel per la Letteratura, la critica si è divisa sull’assegnazione di questo riconoscimento. In questo caso non solo per la qualità letteraria dell’opera di Mo Yan ma anche per questioni geopolitiche. È infatti la prima volta che il premio viene assegnato a un intellettuale cinese “non dissidente”. Mo Yan da parte sua nella prima intervista rilasciata dopo l’annuncio dell’assegnazione del Nobel ha dichiarato che si augura la liberazione in tempi rapidi del suo connazionale Liu Xiaobo, premio Nobel per la Pace 2010 e in carcere per avere scritto un testo in favore della democrazia in Cina, come a voler prendere le distanze dal regime comunista.
Molti commenti, letti e ascoltati in queste ore, mescolano questi due piani: l’aspetto letterario e quello geopolitico. È oggettivamente difficile separare le due questioni anche perché le volontà di Alfred Nobel al riguardo sono molto esplicite: «Tale interesse è diviso in cinque parti uguali, che è ripartito come segue: […] una parte alla persona che ne hanno prodotto nel campo della letteratura il lavoro più significativo in una direzione ideale […]».
Archiviate dunque queste ragioni, per le quali ognuno è in grado di formulare il proprio pensiero, volevo concentrare la mia attenzione su due aspetti: il concetto di contemporaneità e il lessico.
Mo Yan vive a Gaomi, «una piccola città, meno popolata e meno rumorosa di Pechino [150.000 abitanti], ma lì mi posso nascondere nella mia stanzetta e scrivere al massimo della concentrazione. La mia città è strettamente legata alle mie opere». Viene da chiedersi cosa intendano i giurati quando scrivono nella motivazione che Mo Yan mescola «racconti popolari, storia e contemporaneità». Soprattutto a quale contemporaneità facciano riferimento, ovvero se la contemporaneità di cui scrive Mo Yan sia riconoscibile come tale da chiunque legga le sue opere. E ancora se gli stessi giurati abbiano letto le opere di Mo Yan nell’originale cinese. Il lessico, la musicalità e le immagini visive che una lingua è in grado di veicolare sono la lingua stessa, la letteratura che produce.
E infine se penso all’età di Mo Yan, un uomo e uno scrittore di cinquantasette anni, con una lunga aspettativa di vita, non posso non pensare allo statunitense Philip Roth. Lui di anni ne ha settantanove, ha vinto tantissimi premi letterari in tutto il mondo ed è considerato uno dei più grandi autori viventi, eppure il Nobel per la Letteratura non gli è stato assegnato neppure quest’anno.

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