Eraldo Affinati ha vinto il SuperFlaiano 2009, la sezione Letteratura del Premio Flaiano, con Berlin edito da Rizzoli. Ha superato la concorrenza di autori come Boris Pahor, Hanif Kureishi, Aron Appelfed e Amélie Nothomb.Eraldo Affinati è nato a Roma nel 1956, dove vive e lavora. Insegna italiano ai minorenni non accompagnati della Città dei Ragazzi di Roma, oggi abitata da giovani protagonisti delle nuove rotte dell’immigrazione clandestina che attraversano Afghanistan, Iran, Turchia, Grecia per arrivare in condizioni inumane in Italia, e che per puro e fortuito caso si trovano a vivere parte della loro giovane vita a Roma. Come si legge nel sito internet, www.eraldoaffinati.it, la sua scrittura nasce spesso da un viaggio. È il viaggiare, conoscere, scoprire, alla maniera dei grandi scrittori e intellettuali dell’Ottocento, che fa di Affinati uno scrittore necessario, responsabile.
Il Premio Flaiano di letteratura è stato sempre attribuito a grandi scrittori. In alcune occasioni ha premiato autori che dopo pochi mesi hanno vinto il Nobel per la letteratura: è il caso di Seamus Heaney, Josè Saramago e Imre Kertesz. Come ci si sente in questa compagnia?
«È un grande onore. Lo scorso anno questo premio è stato assegnato a Alice Munro che, secondo me, davvero meriterebbe il premio Nobel per la Letteratura, così come gli altri casi citati. In questa occasione, oltre a ringraziare la giura dei duecento lettori, il mio pensiero corre a Ennio Flaiano, di cui mi sono spesso occupato e che considero uno degli scrittori decisivi del Novecento. Ogni volta che torno a Pescara, penso a lui e a Gabriele D’Annunzio.»
Nei suoi libri ci sono le persone, le persone in carne e ossa. E c’è la cultura popolare. Parlano di valori e per questo sono “necessari”. Ha un ruolo lo scrittore nella società contemporanea?
«Ha un ruolo minoritario, ma essenziale: quello di intensificare l’esistenza. La letteratura, oggi ancora più di ieri, ci aiuta a formulare le domande, prima ancora che dare le risposte. Come insegnante so che il primo passo da compiere per i ragazzi, ma anche per gli adulti, è proprio questo: chiedersi il perché delle cose. Non bisognerebbe mai accettare niente a scatola chiusa. Ecco perché chi scrive deve creare le condizioni per fare esperienze vere, non artificiali.»
«Less is more» è una frase di Mies van der Rohe, il grande architetto tedesco, a cui dedichi belle pagine in Berlin. “Meno è più”. Più che un concetto è una filosofia di vita, un invito alla semplicità. È un concetto che applica anche alla sua scrittura?
«Sì, direi soprattutto in Berlin ho cercato di raggiungere una sintesi massima per raccontare, attraverso la capitale tedesca, la mia idea della vita. Questo libro ha una struttura particolare: sette giorni, ventiquattro sezioni per capitolo. Da lunedì a domenica secondo i pronomi personali: io, tu, lui, lei, noi, voi, loro. Ogni giorno si chiude con la descrizine di un quadro italiano conservato nella Gemäldegalerie berlinese. È il frutto di anni di viaggi, appunti, emozioni, letture, amicizie, solitudini e amori. Ci sono dentro gli scrittori che amo, le canzoni che preferisco, i valori in cui credo, le persone che ho incontrato e quelle che ho soltanto sognato.»
Descrivendo lo Jüdisches Museum di Daniel Libeskind a Berlino, scrive: «L’Asse dell’Olocausto termina con una torre deserta dove i rumori non giungono. Andateci. È lì che gli spiriti impazzano». Frammenti di bellezza per ascoltare, in pace, il silenzio.
«Berlino è fatta di spazi a volte misteriosi nei quali percepisci il male e il bene intrecciati come gemelli siamesi impossibili da separare. Il museo di Libeskind è uno di questi luoghi. Ma ce ne sono altri, meno famosi, che ognuno dovrebbe riuscire a trovare da solo. Nel vecchio stadio Olimpico, prima che venisse ristrutturato, io ho avuto l’impressione di riuscire a parlare con Jesse Owens, il corridore nero che nel 1936, vincendo le Olimpiadi, mise in imbarazzo Adolf Hitler.»
C’è anche lei in questo libro e un sogno che riesce a realizzare: quel giro in moto, un vecchio sidecar BMW, con tua moglie, in cui scrivi «non ero Marlon Brando[…] ma quasi assomigliavo a una certa immagine di me stesso».
«Mi riferivo al film I giovani leoni, tratto dal romanzo di Irvin Shaw, in cui Marlon Brando recita la parte di un ufficiale tedesco il quale capisce la follia nazista, in particolare la sequenza motociclistica nel deserto. Io ho sempre amato le Bmw: quando riuscimmo a noleggiarne una a Berlino fui felice.»
E infine, perché dovremmo conoscere Berlino?
«È una città in cui sono presenti le cicatrici del Novecento: nazista e comunista. Si possono vedere ancora entrambe, a occhio nudo: le aquile del Terzo Reich e i lugubri condomini sovietici. In questo senso Berlino è stata il fucile e il bersaglio del ventesimo secolo. Da lì è partito il colpo, ma lì lo si è anche ricevuto. Vedere che oggi questa città è diventata la più multietnica d’Europa è un bel segno di speranza per tutti quelli che hanno a cuore le sorti dell’uomo.»
Leave a Reply
You must be logged in to post a comment.