Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic
Per parlare a lungo di una persona, della sua vita amorosa, lavorativa, politica, bisogna che muoia. Letteralmente. È un espediente eccellente: è più facile stare dalla parte di chi non può difendersi. Un morto, appunto, non può farlo. Per questo è la vittima perfetta. Lev Tolstoj lo sa bene, e confeziona un capolavoro con La morte di Ivan Il’ic. Un morto perfetto.
«Il morto giaceva, come sempre giacciono i morti, colle rigide membra pesantemente abbandonate sulla lettiera della bara, colla testa ormai in eterno reclinata sul cuscino, e mostrava, come sempre mostrano i morti, la fronte gialla e cerea, calva sulle tempie infossate, e un naso prominente che quasi premeva sul labbro superiore».
Eppure, in quella fissità, Tolstoj fa vivere un intero mondo: la Russia della seconda metà dell’Ottocento. Il lavoro, la casa, le ingerenze politiche, la noia in famiglia e sul lavoro. I decori, gli arredi. In poche parole: la vita. Per raccontarci tutto questo, Tolstoj s’inventa un morto.
È o non è un fuoriclasse?
Ancora più incredibile è come riesca a trasferire l’ipocondria che attanaglia un uomo malato, un malato destinato a morire, facendola raccontare a lui stesso. Anzi: al suo stesso cadavere.
«Si richiamò alla mente tutto quello che gli avevano detto i medici su come si stacca e vaga. E con uno sforzo dell’immaginazione cercava d’afferrarlo, questo rene, di tenerlo fermo, di fissarlo al suo posto; gli sembrava ci volesse tanto poco! […] Ivan Il’ic trascorse la serata, secondo l’osservazione di Praskov’ja Fedorovna, più allegramente del solito, ma non dimenticò neanche per un istante di avere in sospeso certi importanti pensieri sull’intestino cieco».
Eppure, lo sappiamo subito: all’undicesima riga della prima pagina, Petr Ivanovic dice: «Signori! Ivan Il’ic è morto». Nonostante ciò, continuiamo a cercare in lui la vita che ci riguarda. Ed è questo, forse, il miracolo di Tolstoj.
La seconda parte del racconto è un dialogo fitto tra Ivan Il’ic e la morte. Non tanto il pensiero della morte: proprio la morte.
Un tema eterno: l’uomo di fronte alla fine. È una danza. Parte lenta, cresce, travolge. All’inizio sono solo piccoli passi: Vanja che si chiede perché stia succedendo proprio a lui. Poi il crescendo: lo strazio, la solitudine, il dolore che si fa assoluto. E due consapevolezze. La prima: Ivan Il’ic è un uomo che non sa soffrire. La seconda: è un uomo che non crede. In nessun Dio.
Nove mesi per nascere, tre per morire: nella sproporzione del tempo, Tolstoj ci mostra tutta la fragilità dell’uomo.
«Era questa menzogna ai suoi danni alla vigilia della sua morte, questa menzogna che doveva ridurre l’atto terribile e solenne della sua morte al livello delle loro visite, delle loro tende, dei loro storioni per pranzo… che angosciava atrocemente Ivan Il’ic».
Chi non ha mai pensato al proprio funerale? Per gioco, per esorcismo.
Tolstoj, con la storia di un uomo che è già morto all’undicesima riga, ci invita a riflettere su cosa pensi davvero chi sta per morire. E, nella condizione estrema in cui versa Ivan Il’ic, non contano più i giorni, le ore, i minuti. Conta il dolore, lo strazio di un corpo che non si sopporta più. Per questo Ivan Il’ic comincia a odiare tutti. Tranne Gerasim, che gli tiene i piedi sollevati e gli regala un po’ di sollievo.
Odia persino la figlia: «Entrò la figlia, agghindata, col giovane corpo seminudo; il corpo, che tanto faceva soffrire lui. Ed essa lo metteva in mostra. Forte, sana, visibilmente innamorata, indignata contro la malattia, la sofferenza e la morte, che le impedivano la sua felicità».
Solo il passato, e nel passato solo l’infanzia, riescono ad alleggerirlo un poco. Sta un po’ meglio quando si distrae, e si distrae solo quando dialoga con la sua anima. Un dialogo serrato, finale, che lo accompagna alla morte.
Un morto che racconta la sua vita. Un morto che dialoga con la sua anima. Un espediente narrativo perfetto. Ma nelle mani di Tolstoj, qualcosa di più: un modo per parlarci della vita.
È o non è un fuoriclasse?
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