le mie recensioni

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Il pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero ospite a casa di amici, faceva già molto caldo e mi aggiravo inquieto alla ricerca di una bibita fresca e di un libro. Erano quasi le sei del pomeriggio e la radio sparava musica a tutto volume quando all’improvviso cessano le note e irrompe la sigla di un notiziario fuori orario. «Attentato in Sicilia. Una quantità enorme di tritolo ha distrutto un tratto dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi porta a Palermo. Lo scoppio è avvenuto all’altezza dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine. Sembra che tra le persone coinvolte ci sia il giudice Giovanni Falcone». Poco dopo la tragica conferma: «Giovanni Falcone è morto in un attentato e con lui muoiono sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti della sua scorta». Continue reading Giovanni Falcone, un eroe contemporaneo

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La requisitoria al “processo Ruby” con la quale il magistrato Ilda Boccassini ha chiesto 6 anni di reclusione e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi arriva pochi giorni dopo la condanna in Appello, sempre per l’ex Presidente del Consiglio, del “processo Mediaset”. I reati contestati a Berlusconi dal magistrato milanese sono in questo caso concussione e sfruttamento della prostituzione minorile. I fatti, pur nelle differenti versioni che oscillano tra «erano solo cene eleganti» e «Le ragazze invitate ad Arcore facevano parte di un sistema prostitutivo organizzato per il soddisfacimento del piacere sessuale di Silvio Berlusconi», sono noti a tutti e dunque non approfondiremo questo aspetto. E i fatti sono noti a tutti per due motivi. Continue reading Il Paese in mano alle escort. Lo squallore del caso Ruby

Ho scritto questo articolo per un portale di controinformazione zemaniana, www.supremoboemo.it, per la mia amica Stella Corigliano.
Il Bayern Monaco, o il Fußball-Club Bayern München per i puristi, conquista la terza finale consecutiva di Champions League, vince la Bundesliga con sei giornate di anticipo ed è una delle finaliste della Coppa nazionale di Germania. Perché dunque la dirigenza tedesca non conferma Jupp Heynckes e assume il catalano Pep Guardiola per la prossima stagione agonistica?
Continue reading Sempre e per sempre

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Un epigramma greco, attribuito a Simonide, recita così: «Piange i suoi morti ognuno: or sono in lutto». Ed è esattamente la prima reazione che ho avuto quando ho saputo della morte di Giulio Andreotti. Ognuno pianga i suoi morti.
Io piango la morte di Agnese Borsellino, una morte che sento mi appartiene. Non ho mai incontrato personalmente Agnese, eppure la sua morte mi appartiene. Era una persona della mia famiglia, una famiglia allargata. La famiglia della legalità e della giustizia, della lotta alla mafia e alla criminalità organizzata, la famiglia degli italiani perbene. Di quegl’italiani che si riconosco nelle parole e nei principi della Costituzione Italiana. Quella Costituzione che Paolo Borsellino, il marito di Agnese, e Giovanni Falcone hanno seguito, difeso e onorato fino alle estreme conseguenze. Continue reading Borsellino e Andreotti. Ognuno pianga i suoi

La rielezione di Giorgio Napolitano, alla veneranda età di 88 anni, è una scelta da conservatori e non da progressisti. Innanzitutto autoconservatori, un ceto politico ormai giunto ben oltre il capolinea e che con questa scelta pensa di sopravvivere e guadagnare tempo.
Ma chi ha voluto il bis di Napolitano al Colle e perché si arrivati a questa rielezione?
A me paiono queste le due domande più pertinenti, ovvero comprendere la motivazione politica di tale scelta piuttosto che spiegare perché non è stato votato Romano Prodi. Non è stata scelta maturata sulla base del merito, sul curriculum. Se avessero valutato anche questo non ci sarebbe stata partita: il profilo politico istituzionale di Romano Prodi non può essere confrontato con quello di Napolitano. Avrebbe vinto il professore per distacco.
Il bis di Napolitano lo hanno voluto la maggioranza dei grandi elettori del Pd e tutto il Pdl. Una scelta che è figlia di un progetto politico che individua in un governo di larghe intese, un governissimo, la modalità per uscire fuori dallo stallo in cui si trova, politicamente, l’Italia.
Una spiegazione semplice e razionale che il Pdl ha fatto sua fin dalle prime ore successive allo spoglio delle schede elettorali, mentre Bersani e il suo partito hanno negato fino al giorno della candidatura di Franco Marini.
È dunque questa la ragione unica di questa rielezione: Napolitano garantisce questa scelta perché è anche la sua scelta. Optare per Romano Prodi non avrebbe garantito la possibile nascita della nuova “coppia di fatto” della politica italiana, Pd (o quel che resta del Pd) + Pdl. Possibile, perché dopo ciò che è successo nelle votazioni di questi giorni, è molto rischioso puntare sulla compattezza del gruppo Pd alla Camera e al Senato.
Questa è la motivazione politica dei 101 grandi elettori che non hanno votato Romano Prodi, il padre dell’Ulivo, l’unico uomo politico che ha battuto nelle urne, per due volte, Silvio Berlusconi. Grandi elettori che sono stati definiti «traditori» da Bersani, «sicari», da Sandra Zampa, deputata e portavoce di Romano Prodi e «quelli-di-sinistra-che-odiano-la-sinistra» da Civati.
Ma chi sono i 101 che hanno sancito la fine politica del Pd non votando prima Franco Marini e successivamente Romano Prodi?
Chi da un’indicazione precisa è sempre la Zampa, portavoce di Prodi, che si è autosospesa dal gruppo Pd alla Camera perché sostiene è «impossibile restare seduta accanto a chi ha accoltellato alle spalle Prodi come un sicario».
Per lei i mandanti sono le due anime del partito che non si sono fuse a caldo, ma solo a freddo: «Dopo il flop di Marini, erano in ballottaggio Prodi e D’Alema. D’Alema ha chiesto le primarie, ma non gli sono state concesse. I gruppi che fanno capo a lui si sono vendicati. Poi si sono aggiunti i sostenitori di Fioroni e Marini, che ha perso le primarie in Abruzzo, e non poteva sopportare venisse eletto chi le primarie le ha inventate. Mario Monti poi, per votare Prodi chiedeva in cambio posti di governo, figuriamoci».
Se si resta a queste dichiarazioni, non smentite da nessuno, l’identikit dei 101 è dunque svelata.
P.s.: Non ho scritto di Stefano Rodotà e del perché il Pd non abbia mai preso in considerazione una sua candidatura per il Colle non perché non me lo sia chiesto. Semplicemente perché Rodotà non è “uno di loro” e per questo motivo non lo avrebbero mai votato come fecero già venti anni fa quando gli preferirono lo stesso Napolitano alla Presidenza della Camera dei Deputati.

Correva l’anno 2007 e si era nel mese di Aprile e Firenze fu lo scenario che i dirigenti di Botteghe oscure scelsero per “chiudere” i Democratici di Sinistra.
In quel Congresso, l’ultimo dei DS appunto, si consumò l’atto conclusivo di un partito che veniva da lontano e che dal quel giorno non sarebbe andato più da nessuna parte.
Io c’ero, ero uno dei delegati che rappresentava la provincia di Pescara. Spiegammo le ragioni del nostro dissenso, ma perdemmo. Vinsero loro, D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani. Oggi possiamo dire, senza ombra di dubbio, che la loro fu una vittoria di Pirro.
M’iscrissi al Pds quando Massimo D’Alema diventò il segretario di quel partito e l’ultimo intervento politico che ascoltai Firenze fu proprio quello di D’Alema. Il suo intervento mi colpì per tre aspetti e perché fece chiarezza su molti punti che erano risultati ambigui o solo sullo sfondo di altri interventi favorevoli alla nascita del Pd.
Il primo punto fu un’affermazione chiara: «Questo è l’ultimo congresso dei Ds». Banale e scontato ma non lo aveva detto nessuno tantomeno durante i congressi di sezione, di federazione e regionali che avevano preceduto quello di Firenze.
Il secondo punto riguardò il profilo del nuovo soggetto politico. Assumendosi la responsabilità per i fallimenti dei progetti politici precedenti, cosa che in quella occasione fece fino in fondo solo Gianni Cuperlo oltre a lui, disegnò i tratti del nuovo partito che pose in un’ipotetica linea mediana tra Confindustria e il sindacato.
Il terzo aspetto riguarda un tema che non affrontò: la laicità dello Stato.
Alla luce di tutto quello che è successo in questi sei anni credo che i tre punti che colsi in quel suo intervento spiegano ancora oggi le ragioni di un clamoroso fallimento politico che oggi è chiaro per tutti.
In quel congresso io e le persone come me che non condividevano quel progetto politico fummo sconfitti e decidemmo d’intraprendere un percorso diverso che, dopo diverse esperienze, ci portò ad essere cofondatori di Sinistra Ecologia e Libertà.
La giornata di ieri, con il volgare voltafaccia di 101 deputati del Partito Democratico che non hanno votato Romano Prodi venendo meno a un impegno preso con se stessi, mi fa essere ancor più sereno e convinto della scelta compiuta a Firenze.
Da oggi, dunque, inizia un’altra storia per la sinistra in Italia. Deve iniziare un’altra storia perché la nostra storia, la storia della sinistra in Italia, non può finire così.

Quando lo scandalo di tangentopoli toccò il suo apice mediatico, le monetine tirate sulla macchina di Bettino Craxi all’uscita dell’Hotel Raphael, sua residenza romana, non c’erano i social network e internet in Italia era agli albori. La fonte principale d’informazione per i cittadini era la televisione seguita dai quotidiani. Autentici totem dell’informazione o della controinformazione (di Stato) erano a quei tempi i conduttori di trasmissioni televisive, Michele Santoro, Gad Lerner e il sempre presente Bruno Vespa. Niente di nuovo, dunque, sotto il sole.
L’onda d’indignazione popolare che accomunava tutto il Paese, da Catania a Milano, fu tanto forte che non ebbe bisogno di essere “manipolata” o “montata” più del necessario e “la politica” fu costretta a fare molti passi indietro. Ci furono alcune rinunce, ma il tempo ci dirà che non furono poi tante e strutturali, che servirono a placare gli animi e tacitare la piazza. Dopo poco tempo tutto tornò come prima del lancio delle monetine. La mala politica, raffigurata da scandali nella pubblica amministrazione che riaffiorano in superficie, è tornata più forte di prima e la distanza dal cuore dei cittadini è diventato un abisso.
Oggi a distanza di 20 anni da quegli eventi ci troviamo, per gli errori commessi fino a questa mattina dal Pd di Bersani, in una situazione quasi analoga. Cittadini delusi dai politici che hanno votato non più di due mesi fa. Politici navigati e competenti, ma incapaci di comprendere perfino l’ovvio. E così dopo aver assistito per due mesi alle farneticazioni di Beppe Grillo ieri sera è successo ciò che non mi sarei mai aspettato succedesse: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi». Beppe Grillo arringava la folla, in Friuli Venezia Giulia credo, per perorare la causa di Stefano Rodotà. Grillo spiegava ai cittadini che lo ascoltavano chi era Rodotà e perché era il candidato di M5S alla presidenza della Repubblica. Più o meno nelle stesse ore il Partito democratico di Bersani si accordava con il Pdl di Silvio Berlusconi per eleggere Franco Marini al Colle. I sogni di Bersani però si sono infranti in aula quando la candidatura di Marini si è fermata a 521 preferenze mentre Rodotà raccoglieva 240 voti. Ai “grillini” si erano aggiunti i voti di Nichi Vendola e di Sel e alcuni voti di deputati del Pd che hanno ascoltato la piazza invece di seguire le direttive del segretario.
Stamattina il clamoroso passo indietro del segretario di Bettola. Bersani propone Romano Prodi all’assemblea dei grandi elettori del Pd ed è standing ovation.
Adesso mancano solo due, piccoli, tasselli. Avanzare la proposta a Sel e al M5S proponendo contestualmente la candidatura di Stefano Rodotà come presidente del Consiglio. Questa proposta garantisce al Paese un presidente serio e preparato con un curriculum adeguato e un governo, che potrebbe durare anche più di una stagione, al Paese.
Più che cedere alla piazza il Partito democratico si accinge a rappresentare il suo elettorato. In qualche altra chiesa direbbero «È cosa buona e giusta».

Capita a volte di vivere serate che non t’aspetti.
Poco fuori Pescara, in un locale che ha aperto da pochi giorni, canta Ron. Mi chiama un amico e mi dice che si sono liberati due posti. Il locale non è grande, lo scoprirò più tardi, ogni spettacolo è pensato per quaranta, massimo, cinquanta persone, decido di andare. Chiamo a mia volta un amico e alle 22.45 siamo a Rosso di sera.
Quello a cui partecipiamo è il secondo set della serata, il primo c’è stato alle 21.30, il nostro inizia alle 23.00. Sembra di essere in America, in uno di quei locali dove puoi incontrare grandi artisti che suonano e cantano per pochi intimi, lontani dal clamore dei media e della pubblicità chiassosa. L’Italia dei talent show non abita qui, è lontana. Almeno per questa sera.
Puntuale, come da programma, Ron sale sul piccolo palco ricavato nel fondo del locale. Imbraccia la chitarra e comincia a cantare. Tre canzoni, una dietro l’altra senza interruzioni. Poi si ferma e comincia a parlare. Parla del suo ultimo lavoro, Way out, nato dalla necessità di stare un po’ in disparte, per riflettere. Racconta del suo viaggio alla ricerca di questa nuova musica, di nuove storie, di autori poco noti nel nostro Paese. Svela il filo rosso che tiene insieme le canzoni di Way out: un concetto, resistere. Resistere in un momento difficile per tutti che la crisi economica mondiale ha reso drammatico. Resistere alla volgarità, alla latitanza dei valori. Al rumore di fondo che ha occupato tutto. Resistere per cercare una via d’uscita.
Mentre parla mi torna in mente Francesco Saverio Borrelli, capo della Procura di Milano negli anni di Tangentopoli, e il suo: «Resistere, resistere, resistere come sulla linea del Piave». Ripetuto tre volte per fissare meglio il concetto. Ron non parla delle stesse cose ovviamente. Il «resistere» di Borrelli era un’orazione civile e collettiva in un momento difficile per la tenuta democratica del nostro Paese. Il «resistere» di Ron è invece una riflessione intima che attiene a ogni singolo uomo, a ogni singola donna, ma che esplicitata e resa pubblica attraverso la musica diviene, in ogni caso, patrimonio collettivo. Resistere dunque alla precarietà del mondo che abitiamo. Alla precarietà dei sentimenti. Edoardo De Filippo avrebbe detto: «Adda passà ’a nuttata».
Ron, Rosalino Cellamare che è su un palco dalla bellezza di 43 anni, canterà altre due canzoni del nuovo lavoro, Gran Torino e Orgoglio antiproiettile. La prima scritta da Jamie Cullum e colonna sonora dell’omonimo film di Clint Eastwood e la seconda di K’naan, un rapper somalo del sud del Mozambico.
Canta e racconta. Aneddoti soprattutto, legati al concepimento di alcune canzoni. Di quando Lucio Dalla non volle cantare Il gigante e la bambina e decisero che l’avrebbe cantata lui, il giovanissimo Ron. Di quando è nata nella testa di Dalla Henna, su un gommone al largo delle Isole Tremiti mentre il cielo era attraversato da aerei da guerra diretti nella ex-Jugoslavia.
Si percepisce che canta con voglia di cantare e di stare insieme a noi che lo stiamo ad ascoltare. Gli piace questa dimensione minimalista. Ha una voce giovane e bella. Chiara e profonda. Che arriva dentro e non ti lascia, piuttosto ti avvolge. A volte stordisce.
Con lui sul palco ci sono Giovanna Famulari, voce e violoncello e Fabio Coppini alle tasterie. Due presenza preziose, musicisti veri come Rosalino.
Il gigante e la bambina, Henna, Sabato animale, Anima, Una città per cantare, Vorrei incontrarti fra cent’anni, Piazza Grande e cinque canzoni del nuovo lavoro per una di quelle serate che non t’aspetti e che invece arrivano, a volte improvvise, ad accarezzarti il cuore.
«Io credo che il dolore è il dolore che ci cambierà
Oh ma oh il dolore che ci cambierà
E dopo chi lo sa se ancora ci vedremo e dentro quale città
Brutta fredda buia stretta o brutta come questa sotto un cielo senza pietà
Ma io ti cercherò anche da così lontano ti telefonerò
In una sera buia sporca fredda
Brutta come questa
Forse ti chiamerò perché vedi
Io credo che l’amore è l’amore che ci salverà
Vedi io credo che l’amore è l’amore che ci salverà».

Questo articolo è pubblicato anche su QuasiRete, il blog di narrazione sportiva di www.gazzetta.it
Leggere il libro di Pietro Mennea, La corsa non finisce mai, a pochi giorni dalla sua morte è stata un’esperienza entusiasmante e insieme dolorosa. Entusiasmante perché Mennea in prima persona racconta e condivide con il lettore la sua inimitabile carriera sportiva, ricca di successi e soddisfazioni personali e collettive. Dolorosa perché la medaglia d’oro di Mosca fa ri-emergere i fatti e le ragioni dell’ostracismo nei suoi confronti da parte dell’establishment politico a capo del mondo dello sport italiano. Continue reading La corsa non finisce mai, Pietro Paolo Mennea

La clamorosa affermazione elettorale del M5S alle ultime elezioni politiche, con tutto ciò che sta comportando da un punto di vista mediatico, rischia di farci allontanare dai problemi reali del Paese. L’attenzione è tutta concentrata sui tagli da effettuare e sugli sprechi della “casta” e per nulla sui temi dello sviluppo e del lavoro. Ovvero il dibattito, con l’avvento dei rivoluzionari provenienti direttamente dalle tastiere dei pc (personal computer), non è centrato sulle politiche di rilancio dell’economia o su quale futuro il Parlamento disegnerà per l’Italia ma tutto rivolto al proprio interno. Continue reading Carte d’Italia
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