Oggi è per me un giorno triste, molto triste.
È morto mio zio, si chiamava Filippo ed aveva novant’anni. In realtà era lo zio di mia madre, il fratello di mio nonno, ma noi, in famiglia, lo abbiamo sempre chiamato zio Filippo, così come allo stesso modo lo chiamavano tutti gli abitanti del paese dove ha sempre vissuto. Zio Filippo era fotografo, un lavoro che ha svolto con passione fino a pochi anni fa.
Mi ha insegnato tante cose, soprattutto l’attenzione e l’amore per il “bello”, anche se i nostri gusti non sono mai stati simili, anzi discutevamo spesso e a lungo sul concetto di bellezza e alla fine di queste discussioni ognuno restava con la sua idea e con i suoi modelli di riferimento.
Alla fine della scuola quando mi trasferivo al suo paese per tutta l’estate lo aiutavo nel suo lavoro e spesso le nostre giornate di lavoro iniziavano alle otto di mattina e terminavano oltre la mezzanotte. In certe giornate particolari riuscivamo a fare anche tre matrimoni e quando capitava tutto ruotava attorno alla sua figura. Era in realtà il gran cerimoniere delle feste. Dettava i tempi ai preti per la celebrazione delle funzioni ma anche ai ristoratori affinché i tempi di uscita delle portate coincidessero con i nostri spostamenti. Erano giornate che non finivano mai, molto convulse, piene di cose da fare, di richieste da soddisfare. Sono stato il suo assistente, dai quattordici ai diciotto anni fino alla maturità, poi mi sono trasferito a Pescara a studiare architettura e quelle belle e lunghe giornate passate insieme a fissare sulla carta fotografica amori, sorrisi e gioie, sono diventate sempre più un lontano ricordo. Così come un lontano ricordo sono quei lunghi pomeriggi d’estate passati in camera oscura a “vedere come sono venute le foto”.
Il suo studio fotografico era un autentico bazar. C’era di tutto. Sculture, rullini dappertutto e tante ma tante fotografie in bianco e nero. Un busto in bronzo, che gli aveva fatto uno scultore di Milano molto famoso di cui non sono mai riuscito a sapere il nome, e la foto dei suoi nonni troneggiavano all’ingresso della prima stanza e sovrastavano un grande tavolo pieno di ogni cosa voi possiate immaginare abbia a che fare con la fotografia. Sulla destra, salendo tre gradini si apriva un piccolo atrio che portava alla camera oscura, mentre in fondo alla stanza del busto e della foto dei nonni c’era, chiamiamolo così, lo studio dove fare le foto tessera. Si usavano molto all’epoca, anzi in certe giornate calde d’agosto si passava quasi tutto il giorno in quella stanza.
È stato un uomo serio, molto stimato, al quale hanno voluto bene in molti. Una bella persona.
Mi ha fatto anche molte fotografie. La foto che utilizzo in questo blog e che mi ritrae bambino è un particolare di una foto che mi ha scattato lui. Ogni qualvolta che doveva “finire” come diceva lui, un 6×6 della sua mitica Hasselblad, mi cercava e mi fotografava. Così faceva pure quando aveva un po’ di pellicola da girare prima di andare allo sviluppo.
Questa mattina quando l’ho visto non ho pianto, lo sto facendo adesso mentre scrivo queste poche righe che, forse, servono, soprattutto a me, per stemperare un po’ il dolore. Ora che non c’è più mi mancherà e molto, credo.
Aveva partecipato alla seconda guerra mondiale e fu fatto prigioniero per alcuni anni. Quando tornò dalla prigionia, alla fine della guerra, cominciò ad appassionarsi alla fotografia e da lì a pochi anni di quella passione ne fece la sua professione.
Volevo dedicargli una poesia, la mia poesia preferita.
Per tre motivi. Il primo è che è stata scritta un anno dopo la sua nascita, quindi è nata quasi con lui. Il secondo è che il titolo è Soldati e quindi richiama una parte importante della sua vita. La terza è che esprime bene quello che provo in questo momento.
Soldati, Bosco di Courton 1918
di Giuseppe Ungaretti
Si sta come,
d’autunno,
sugli alberi,
le foglie.
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